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Schema ABI e fideiussioni.

 

Definito dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021 il contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto la sorte dei contratti di fideiussione stipulati e redatti secondo gli schemi predisposti dell'ABI e ritenuti parzialmente nulli dall'Autorità Garante in violazione dell'art. 2 l. n. 287/1990.

L’origine della vicenda risale al provvedimento n. 55 del 2.05.2005, con cui Banca d’Italia, all’epoca Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito, aveva concluso che gli articoli 2, 6 e 8 dello schema di fideiussione predisposto dall’ABI contenevano disposizioni che violavano la normativa antitrust, nella misura in cui venivano applicate in modo uniforme.

Come ormai noto, si tratta (i) della cd. clausola di reviviscenza, secondo la quale il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, (ii) della clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c., in forza della quale i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino alla totale estinzione, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore entro i tempi previsti dal codice e (iii) della cd. clausola di sopravvivenza, secondo la quale, qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate.

Nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, così come in dottrina, sono emerse negli anni successivi conclusioni variegate e non univoche, quanto alla sorte delle fideiussioni.

In estrema sintesi, le soluzioni individuate sono state:

- il contratto fideiussorio contenenti clausole riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall'ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie è integralmente nullo, ai sensi dell'art. 1418 c.c., per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2 della l. n. 287/1990 e, quindi, per "nullità derivata" conseguente al rapporto strumentale esistente tra la garanzia a valle e l'intesa a monte, ovvero anche per illiceità della causa della stessa fideiussione, in quanto funzionale al perseguimento del risultato vietato cui l'intesa era finalizzata;

- sono affette da nullità esclusivamente le singole clausole che riproducono quelle ritenute abusive dalla Banca d’Italia, frutto di intesa illecita a monte; si è parlato di “nullità parziale”, restando comunque salvo il contratto di fideiussione, seppure epurato di tali articoli, considerato che la funzione economico - sociale perseguita dalle parti rimane perfettamente lecita;

- il contratto fideiussorio a valle mantiene la propria validità, nella sua interezza, ma i garanti hanno la possibilità di ottenere il risarcimento del danno patito in conseguenza della riproduzione delle clausole in parola. A tal fine sono è sufficiente una generica allegazione della sussistenza dell'illecito antitrust, ma dev'essere precisata la conseguenza che esso ha cagionato sul diritto ad una scelta effettiva tra una pluralità di prodotti concorrenti.

La Suprema Corte esclude anzitutto la tesi secondo cui al consumatore sarebbe consentita la sola azione risarcitoria: l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto.

Prosegue quindi la Corte, affermando che la forma di tutela più adeguata allo scopo, ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, sia la nullità parziale, limitata – appunto – a tali clausole. Né va tralasciato il rilievo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il principio generale di conservazione del negozio giuridico.

Tale nullità è rilevabile d’ufficio da parte del Giudice ed è imprescrittibile.

19 gennaio 2022.


Immobile pignorato? Ecco cosa può fare il debitore.

In caso di pignoramento immobiliare il nostro ordinamento concede al debitore esecutato una possibilità per salvare la propria casa.

È possibile, infatti, che il debitore non abbia la liquidità per saldare in un’unica soluzione il proprio debito, ma vi possa provvedere con un piano rateale.

L’art. 495 c.p.c. prevede l’istituto della c.d. conversione del pignoramento.

Per avvalersi del procedimento è necessario che il debitore esecutato presenti un’istanza al Giudice, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione del bene, corredata da un deposito in denaro pari ad un sesto del totale dei crediti vantati dal creditore o dai creditori in caso di intervenuti.

Il Giudice determina con ordinanza l’importo complessivo da corrispondere ed il numero di rate con cui potrà essere pagata la somma stabilita, entro un massimo di 48 rate mensili.

Attenzione però. Qualora il debitore ometta il versamento dell'importo determinato, ovvero ometta o ritardi di oltre trenta giorni il versamento anche di una sola delle rate previste, le somme versate formeranno parte dei beni pignorati e i creditori potranno comunque chiedere la vendita del bene.

Una valida alternativa alla conversione del pignoramento è quella di proporre a tutti i creditori che partecipano alla vendita un accordo, secondo le reali possibilità del debitore stesso. Un accordo potrebbe prevedere ad esempio una riduzione del capitale e/o degli interessi, ovvero una dilazione nei pagamenti.

Il creditore, in presenza di proposte serie, potrebbe essere interessato a prenderle in considerazione anche a costo di una decurtazione del proprio credito o della concessione di rateazioni, al fine di evitare le lungaggini e l’incertezza che il processo dell’esecuzione comunque comporta

E’ importante che l’eventuale accordo coinvolga tutti i creditori, essendo sufficiente che uno solo di questi chieda la vendita perché si debba procedere in tal senso

Un’ulteriore alternativa è quella che il debitore ricerchi privatamente un acquirente.

L’esistenza del pignoramento non impedisce, infatti, la vendita dell’immobile da parte del debitore purché vi sia il consenso ti tutti i creditori ai quali sarà versato il ricavato della vendita, nei limiti del loro credito. In questo caso i creditori contestualmente all’incasso delle somme autorizzeranno la cancellazione delle eventuali ipoteche e del pignoramento.

In questo modo si potrà evitare che col susseguirsi degli esperimenti di vendita il valore dell’immobile scenda fino ad un prezzo notevolmente inferiore alla stima del perito e al valore di mercato, con pregiudizio sia per i creditori che per il debitore stesso.

Questa ultima soluzione è particolarmente interessante nel caso in cui il valore degli immobili pignorati sia superiore al valore dei debiti. Se infatti, una volta venduto l’immobile e pagati i creditori, residua parte del prezzo, essa spetterà al debitore.

30 novembre 2021


Le conseguenze economiche dello scioglimento della famiglia di fatto

 

La fine di una convivenza more uxorio, in assenza di una specifica regolamentazione contrattuale tra le parti ed allo stato dell’attuale legislazione, può porre rilevanti problemi sotto il profilo patrimoniale.

Non esistendo tra i conviventi un regime patrimoniale codificato, ma avendo gli stessi spesso affrontato molteplici acquisti, anche rilevanti, durante la convivenza, soprattutto se di lunga durata, con apporti diversificati dell’uno e dell’altro compartecipe, al momento della separazione non sono inconsuete vicendevoli rivendicazioni e richieste di restituzione.

La giurisprudenza è ormai cristallizzata nel ritenere che il regime patrimoniale dei conviventi di fatto, salvo specifica regolamentazione disciplinata nel contratto di convivenza, soggiace alle regole della reciproca assistenza materiale. La famiglia di fatto è considerata una formazione sociale avente rilevanza costituzionale secondo il disposto dell’art. 2 Cost.

La dazione di denaro effettuata da un convivente a beneficio dell’altro deve essere intesa, pertanto, in assenza di diverso accordo, come adempimento di un’obbligazione naturale. Sussistendo infatti analogie con il vincolo familiare che si forma nell’ambito del matrimonio, anche le attribuzioni patrimoniali avvenute durante il periodo della convivenza posso ritenersi effettuate secondo la logica solidaristica e assistenziale che lega due soggetti, in esecuzione quindi di un dovere di assistenza morale e materiale, prescritto ora per legge per le coppie di fatto registrate all’Anagrafe del comune di residenza.

In quanto tali dette spese risulterebbero soggette al principio della soluti retentio di cui all’art. 2034 c.c. (per esempio i contributi per le spese di vitto e alloggio).

Tuttavia, non tutte le prestazioni possono dirsi avvenute per esigenze quotidiane della coppia.

Detta tesi trova quindi un limite: secondo la giurisprudenza le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente sono irripetibili a condizione che vengano rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza. In altri termini, le spese del ménage familiare sono da considerarsi sostenute con spirito solidaristico qualora esse siano proporzionate all’entità del patrimonio di chi le ha affrontate.

Nell’ipotesi contraria, la corresponsione di somme ingenti produrrebbe in capo al beneficiario un indebito arricchimento contro il quale si ritiene esperibile azione di arricchimento senza giusta causa ex art. 2041 c.c. Difetta infatti la giusta causa sia nell’arricchimento dell’uno sia nella diminuzione patrimoniale dell’altro.

L’azione di arricchimento senza causa, però, ha natura sussidiaria ed è applicabile solo laddove l’ordinamento non predisponga altri strumenti di difesa. La domanda ex art. 2041 c.c. può essere esperita, in materia di versamenti in denaro tra componenti della coppia, solo laddove le prestazioni non trovino giustificazione nella solidarietà del legame esistente e nel momento in cui si realizzino contemporaneamente un arricchimento dell’accipiens e un impoverimento del solvens, privi di una valida causa giustificativa.

Al di fuori di dette ipotesi, ovvero in mancanza di idonei elementi probatori degli elementi citati, si potrebbe profilare un pericoloso vuoto di tutela, soprattutto del convivente che confidando in un rapporto duraturo, abbia fatto copiosi investimenti in beni (sovente di natura immobiliare) rimasti esclusivamente nella disponibilità dell’altro.

La giurisprudenza, mutuando in via analogica un principio enucleato anche in caso di separazione tra coniugi, ha fatto quindi ricorso all’istituto dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., secondo cui chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato, maggiorato dei frutti e degli interessi.

Nel caso, per esempio, di un convivente che aveva contribuito al pagamento di un immobile intestato esclusivamente all’altro, si è ritenuto che al momento della cessazione della convivenza detto pagamento risulti privo di titolo. Cessato il rapporto viene meno cioè anche la ragion d’essere del pagamento.

Appare peraltro necessario, per poter invocare l’esistenza di un indebito, escludere che la dazione sia stata effettuata a titolo di liberalità, istituto invocato sovente soprattutto a difesa del condividente che vuole trattenere quanto ricevuto. Oltre ai requisiti di forma, per poter sostenere una donazione, anche indiretta, è necessaria la prova dell’animus donandi, che se pur possa essere data per presunzioni, richiede comunque un certo rigore.

Laddove le dazioni siano avvenute sotto forma di pagamenti fatti a terzi, soccorre anche il principio della solidarietà passiva nelle obbligazioni. L’obbligazione solidale, se non risulta diversamente, si divide nei rapporti interni tra condebitori in parti eguali; pertanto, il coobbligato che abbia pagato l’intero, è titolare, salvo prova contraria a carico dell’altro condebitore, del diritto di ripetere da quest’ultimo la metà di quanto pagato al comune creditore.

Fondamentale è la disamina del caso specifico necessitante di tutela, al fine di individuare l’istituto giuridico più opportuno.

9 novembre 2021


 

Comprare all’asta. Come si fa?

L’acquisto di immobili all’asta è un tema di grande attualità. Spesso i potenziali acquirenti sono però scoraggiati perché non conoscono le modalità di partecipazione alla vendita.

Presentare un’offerta per una vendita all’asta, nell’ambito di una procedura esecutiva immobiliare, non presenta particolari difficoltà, ma è bene fare attenzione alle prescrizioni della legge, contenute anche nell’avviso di vendita.

In questo articolo andremo ad esaminare le modalità di partecipazione ad una vendita “tradizionale”, non telematica.

L’offerta, che deve essere sottoscritta e munita di bollo dell’importo di € 16,00, deve essere presentata in busta chiusa al professionista delegato dal Tribunale e deve contenere le complete generalità dell’offerente, con l’indicazione dello stato personale (libero, coniugato e in tal caso il regime di patrimoniale scelto) dell’offerente, la copia dei documenti di identità dell’offerente, nonché l’estratto per riassunto del certificato di matrimonio in carta libera rilasciato entro i tre mesi precedenti alla data della vendita. E’ bene, inoltre, indicare l’intenzione di avvalersi di agevolazioni fiscali. Se l’offerta è presentata in nome e per conto di un soggetto minore o interdetto o inabilitato è necessario allegare copia del documento di identità in corso di validità e del codice fiscale del soggetto offerente e del soggetto che sottoscrive l’offerta, nonché copia del provvedimento di autorizzazione del Giudice. Quando l’offerta è presentata da cittadino di Stato non facente parte della Comunità Europea bisogna invece allegare il certificato di cittadinanza ed eventualmente il permesso o la carta di soggiorno in corso di validità.

L’offerta può essere presentata anche da una persona giuridica. In questo caso dovranno essere indicati denominazione, sede, numero di iscrizione al registro delle imprese della provincia di appartenenza, allegando certificato camerale di data non anteriore ai tre mesi rispetto alla data fissata per la vendita, dal quale risulti la costituzione della società ed i poteri conferiti all’offerente, unitamente alle generalità e ai documenti in corso di validità del legale rappresentante, nonché l’indicazione della fonte da cui sono derivati i poteri dello stesso, provvedendo ad allegare procura notarile ovvero copia della delibera assembleare, corredata eventualmente da statuto e/o patti sociali

Non è possibile intestare l’immobile a soggetto diverso da quello che sottoscrive l’offerta, il quale dovrà anche presentarsi all’incontro fissato per la vendita, poiché nel caso di più offerenti potrà partecipare alla gara.

È possibile, però, far presentare l’offerta da un avvocato per persona da nominare, ai sensi dell’art. 579 ultimo comma c.p.c.. In questo caso l’avvocato partecipa alla vendita ed in caso di aggiudicazione, entro tre giorni comunicherà il nome del soggetto a cui intestare l’immobile.

Nell’offerta dovrà essere indicato il numero della procedura esecutiva, del lotto ed dei dati identificativi del bene immobile per i quali l’offerta è proposta, il prezzo che si intende offrire ed il termine di pagamento (la legge prevede un termine massimo di 120 giorni).

Infine, è necessario allegare all’offerta un deposito cauzionale non inferiore al 10% del prezzo offerto. In caso di vendita tradizionale il deposito cauzionale si effettua allegando un assegno circolare non trasferibile di solito intestato alla procedura esecutiva stessa, salvo disposizioni diverse indicate nell’avviso di vendita. Il mancato deposito cauzionale nel rispetto delle forme e dei termini indicati, determina l'inammissibilità dell'offerta.

Lo studio Gallasso & Associati è a vostra disposizione per approfondimenti sul tema.

26 ottobre 2021


Il fatto notorio all'epoca di Internet

 

Principio cardine del nostro processo civile è quello affermato dall’art. 115 c.p.c. secondo il quale il Giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Il 2° comma della medesima disposizione però, attenua detto principio dispositivo, consentendo al giudice, senza bisogno di prova, di porre a fondamento della decisione le “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” secondo il brocardo latino “notoria non egent probatione”.

Proprio in quanto deroga ad un principio cardine dell’ordinamento processuale la disposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 115 c.p.c. è sempre stata intesa in senso rigoroso.

Per fatto notorio si intende una circostanza conosciuta (o che possa essere obiettivamente conosciuta) da una generalità di persone di media cultura di un dato luogo e in un dato tempo con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non quale evento o situazione solo probabile (Cass. n. 5530/2017; Cass. n. 5438/2017; Cass. n. 10204/2016). Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano (cfr. in tal senso: Cass. n. 2808/2013). Ne restano escluse quindi anche le nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, in quanto non universale (Cass. 5 ottobre 2012, n. 16959).

In sede applicativa è stato ritenuto che si può qualificare come fatto notorio  e, quindi, non bisognevole di prova specifica, la periodicità della capitalizzazione operata dalle Banche italiane negli anni di riferimento, trattandosi di un dato che rientra nel patrimonio di conoscenze comuni e generali in possesso della collettività nel tempo e nel luogo della decisione, anche in quanto oggetto di sistematiche forme di diffusione e pubblicità, e, quindi, di ciascun individuo di media cultura ordinariamente partecipe delle attività socio-economiche della collettività stessa (Trib. Nola, sez. II, 19 febbraio 2009); in caso di dequalificazione, il danno alla professionalità costituisce "fatto notorio", che il giudice può porre a fondamento della decisione in base all'art. 115 c.p.c.; la determinazione del danno alla professionalità può essere compiuta in via equitativa, commisurando il danno alla quota di retribuzione che compensa le capacità professionali del lavoratore e tenendo conto degli eventuali danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare con l'impiego dell'ordinaria diligenza (Trib. Milano 24 marzo 2004). In senso analogo, stante l'impossibilità di annoverare tra le nozioni di comune esperienza gli elementi valutativi che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati estimativi, si è affermato, sempre in sede di legittimità, che non può essere considerato fatto notorio la determinazione del valore corrente degli immobili.

Con l’avvento di Internet, che chiaramente facilita l’accessibilità praticamente immediata ad un numero indeterminato di notizie, ci si è interrogati sulla eventuale nuova portata della nozione di “notorio”.

Il primo approccio della giurisprudenza è stato decisamente restrittivo, per cui si è affermato che le informazioni pervenute da internet, quand'anche di facile diffusione ed accesso per la generalità dei cittadini, non costituiscono dati incontestabili nelle conoscenze della collettività (Trib. Mantova 16 maggio 2006).

Ci si è resi però conto che, ferma la definizione consolidata di notorio, sicuramente Internet è uno strumento idoneo alla creazione o diffusione della notorietà.

Si è cominciato quindi anche in sede giurisprudenziale a mostrare una certa apertura.

Cassazione n. 25707/2015 e Cassazione n. 21569/2016 hanno sostenuto che “Le quotazioni OMI (ossia le quotazioni del mercato immobiliare) risultanti dal sito web dell’Agenzia delle Entrate, ove sono gratuitamente e liberamente consultabili, non costituiscono fonte tipica di prova ma strumento di ausilio ed indirizzo per l’esercizio della potestà di valutazione estimativa, sicché, quali nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, utilizzabili dal giudice ai sensi dell’art. 115, 2° comma, c.p.c. sono idonee solamente a condurre ad indicazioni di valori di larga massima”.

Tribunale Genova 12.04.2013: «Le immagini di strade reperibili su Google, in quanto disponibili a chiunque come notizie di comune esperienza e pertanto prive del requisito di intrinseca incertezza che caratterizza invece le notizie solo inserite nel web e non acquisite al patrimonio di comune conoscenza, si possono considerare notorio giudiziario ex art. 115 c.p.c.».

Appello Roma 11.02.2013: Nel rigettare l’appello promosso da un’Associazione contro la CIRIO in amministrazione straordinaria avverso una sentenza del Trib. che aveva accolto la domanda proposta dall’appellata di accertamento dell’inefficacia di alcuni pagamenti in virtù dell’art. 67 co. 2 L.F. (previgente), ha rilevato la circostanza del gravissimo stato di decozione in cui versava la CIRIO nell’autunno 2002 (e, conseguentemente, la prova della sussistenza della scientia decoctionis) non soltanto dalle notizie di stampa prodotte in atti, ma anche da internet, affermando che trattasi di «circostanza che può ritenersi acquisita al fatto notorio, per il vasto eco della notizia sugli organi di informazione dell’epoca, come facilmente rilevabile anche ad oggi a mezzo di qualsivoglia ricerca su internet.»

Ci si è resi conto che se da un lato il fatto che una notizia è rinvenibile sul web non la rende automaticamente notoria, dall’altra, poiché i fatti divengono ‘notori’ tramite mezzi di comunicazione di massa, non si può disconoscere che internet ne sia ora il principale strumento.

In tal senso Cass. civile n. 18748/2010 afferma che “Il notorio oggi ricorre quando una persona di ordinario livello intellettivo e culturale vivente in quel contesto storico ed ambientale può avere agevole conoscenza del ‘fatto’ ritenuto noto, anche tramite elementi che possono essere tratti dalle correnti informazioni frequentemente diffuse da organi di stampa o radiotelevisivi, alla cui opera informativa e divulgativa va ormai riconosciuto, agli effetti dell’art. 115 c.p.c., c. 2, l’innalzamento della soglia del c.d. ‘notorio’, costituente l’ordinario patrimonio di conoscenza dell’uomo medio, rispetto a precedenti epoche, caratterizzate da un più basso livello socio-culturale generale della popolazione e da minore capacità diffusiva dei mezzi d’informazione di massa» : tale principio dovrebbe trovare applicazione anche per le informazioni diffuse da siti internet.”

Mentre vi sono dei fatti che possono considerarsi notori per il modo stesso in cui si sono verificati, ve ne sono altri che acquistano notorietà in un momento successivo rispetto alla loro verificazione, in virtù dei mezzi di divulgazione attraverso i quali divengono oggetto di conoscenza generalizzata, pur essendo in origine avvenuti in presenza di un numero esiguo di persone. In tal caso la diffusione del fatto attraverso i mezzi di comunicazione di massa costituisce un presupposto essenziale perché riguardo ad esso si formi quella conoscenza qualificata che gli consente di assurgere a fatto notorio. Ed è innegabile che oggi giorno il maggior strumento di diffusione sia il web

Ed è così che anche la giurisprudenza sta mostrando maggior consapevolezza al riguardo.

Recentemente Cassazione civile sez. lav., 21/12/2020, n.29235 in tema di protezione internazionale, ha affermato che “Posto che, al fine di riscontrare la situazione di esposizione a pericolo per l'incolumità fisica indicata dal ricorrente, il giudice è tenuto a verificare le informazioni attingendo ai proprio poteri officiosi, a tale scopo non deve limitarsi alle fonti ufficiali ma anche attraverso canali di informazione, anche via web, quali ad esempio i siti internet delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell'aiuto e della cooperazione internazionale (quali ad esempio Amnesty International e Medici senza frontiere) che spesso contengono informazioni dettagliate e aggiornate. Tali fonti, in ragione della capillarità della loro diffusione e della facile accessibilità per la pluralità di consociati, vanno considerate alla stregua del fatto notorio.”

Il web, pertanto, per le proprie caratteristiche di mezzo di diffusione della notizia ormai “di massa”, è diventato necessariamente un elemento qualificante e costituente il “notorio”.

5 ottobre 2021


Madre posta video della figlia su TIK TOK senza il consenso del padre.

Il Tribunale la condanna a rimuoverlo e a risarcire la figlia.

 Abbiamo già affrontato il tema dello sharenting, fenomeno sempre più diffuso e pericoloso che riguarda la pubblicazione su internet e social network di immagini e video riguardanti minori.

La tematica è così attuale che pochi giorni fa il Tribunale di Trani è intervenuto ordinando la rimozione, dal social media “TikToK”, di un video in cui era presente una minore, pubblicato dalla madre senza il consenso del padre.

In particolare, a seguito della pubblicazione del video, il padre promuoveva un ricorso ex art. 700 c.p.c., finalizzato ad ottenere la condanna della ex moglie alla rimozione dai social network di immagini e video della figlia minore.

Il ricorso, inizialmente rigettato, è stato oggetto di reclamo da parte del padre avanti il Tribunale di Trani che ne ha riconosciuto la fondatezza, affermando che «i requisiti del fumus e del periculum vengono valutati anche tenendo conto di elementi quali l'a-territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile».

La condotta della madre secondo il Tribunale ha violato diverse norme comunitarie, internazionali e interne: l'art. 8 Reg. n. 679/2016, infatti, considera l'immagine fotografica dei figli come un dato personale, ai sensi dell'art. 4, lett. a)b) e c) del c.d. Codice della Privacy (d.lgs n. 196/2003) e la sua diffusione integra un'interferenza nella vita privata; nel caso di minori di sedici anni, inoltre, occorre il consenso alla pubblicazione da parte di entrambi i genitori e di comune accordo, «senza arrecare pregiudizio all'onore, al decoro e alla reputazione dell'immagine del minore» (art. 97 l. n. 633/41).

Nel caso in esame il consenso del padre era del tutto assente, non potendo essere desunto dalla possibilità dello stesso di accedere al profilo social della madre.

Il Giudice ha inoltre rilevato che «l'inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l'ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati. Dunque, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network, sicché l'ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente» (Trib. Mantova, 19 settembre 2017).

Per tutte queste ragioni il Tribunale ha accolto il reclamo del padre ordinando alla madre la rimozione del video, dei dati e delle informazioni riguardanti la figlia, diffidandola dal diffondere altre immagini o informazioni senza il consenso del padre e condannandola al versamento in favore della figlia di € 50,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione.

29 settembre 2021

 


Concessione abusiva di credito.

Responsabilità della banca e legittimazione del curatore fallimentare.

Con la sentenza n. 24725 del 14 settembre 2021, sulla scia della precedente ordinanza n. 18610/2021, la Suprema Corte offre una completa ricostruzione della responsabilità degli istituti bancari nell’esercizio del credito, da un lato, e dei poteri e compiti del curatore fallimentare, dall’altro.

È illecita la condotta dell’operatore bancario “che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in istato d’insolvenza o comunque di crisi conclamata”.

La responsabilità della banca discende dal mancato rispetto di specifici criteri di comportamento cui la stessa è tenuta: ai sensi dell’art. 1176 c.c. (diligenza nell’esecuzione della prestazione professionale), del generale principio della sana e corretta gestione che permea l’intera disciplina bancaria, nonché di tutta la disciplina primaria e secondaria settoriale del credito e degli accordi internazionali.

Il soggetto finanziatore ha difatti il dovere di valutare e verificare il merito creditizio del cliente, sotto il profilo patrimoniale e reddituale, secondo un processo che si articoli nelle fasi di istruttoria, erogazione, monitoraggio delle posizioni, revisione delle linee di credito e interventi in caso di anomalia.

La ratio del fitto reticolo di principi, controlli e regole predisposte è quella di gestire i rischi specifici del settore, posto che l’attività di concessione del credito da parte degli istituti bancari non costituisce, come ricorda la Cassazione, mero “affare privato”, ben potendo un eventuale inadempimento incidere negativamente – oltre che sullo stesso ente finanziatore – anche sul soggetto finanziato e su tutti i terzi che con quest’ultimo siano entrati in contatto.

L’abusiva concessione di credito (unitamente all’abusivo ricorso al credito) incide infatti direttamente sul patrimonio sociale, aumentando l’indebitamento dell’impresa per il rilevante debito restitutorio assunto e per gli interessi e gli ulteriori oneri finanziari che vi sono connaturati. Parallelamente si produrrà un aggravamento delle perdite indotte dalla continuazione dell’attività d’impresa: la liquidità ottenuta con il finanziamento sarà presumibilmente destinata a pagare i debiti “più urgenti”, con l’effetto di occultare il dissesto e permettere la continuazione dell’attività e così la generazione di nuove perdite.

È pur vero che il legislatore, come evidente dal sistema del Codice della Crisi dell’Impresa, mostra un netto favor verso il sostegno finanziario dell’impresa, ai fini della risoluzione della crisi, attraverso istituti che ne scongiurino il fallimento. Quale, allora, la linea di demarcazione tra finanziamento lecito e finanziamento abusivo?

La banca deve valutare, ex ante, la meritevolezza del finanziamento richiesto, sulla scorta delle possibilità di effettivo risanamento aziendale e dell’idoneità del soggetto finanziato di utilizzare il credito per detto risanamento attraverso un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile. Sarà compito del giudice di merito valutare se, al contrario, il finanziatore abbia agito con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Laddove si prospetti una responsabilità della banca, all’esercizio dell’azione risarcitoria è chiamato il curatore: legittimato a far valere sia il danno subito dalla società fallita, che quello subito dai creditori fallimentari.

Sotto il primo profilo il curatore, in quanto successore ex art. 43 l. fall. nei rapporti del fallito, può far valere tutti i diritti rinvenuti nel patrimonio dell’impresa fallita, come per l’appunto il diritto al risarcimento del danno per la lesione del patrimonio sociale.

Sotto il secondo profilo, l’azione del curatore rientrerebbe tra quelle azioni cd. di massa dirette alla ricostituzione del patrimonio del fallito ex art. 2740 c.c. (tra le quali si annoverano le azioni revocatorie e quelle di responsabilità contro gli organi sociali), nell’interesse di tutto il ceto creditorio. L’abusiva concessione del credito comporta difatti, come già visto, un’inevitabile diminuzione della garanzia patrimoniale, cui oltretutto si accompagna l’ingiustificata continuazione dell’attività e il conseguente aumento del dissesto con danno per tutti i creditori.

Pertanto, al curatore che agisce a reintegrazione del patrimonio sociale pregiudicato dall’abusiva concessione del credito appartiene sia la legittimazione attiva a richiedere al finanziatore il risarcimento per i danni diretti cagionati alla società, sia quella per i danni indiretti alla massa dei creditori.

Diverso sarà tuttavia il titolo di responsabilità dell’operatore bancario:

- verso il fallito deve intendersi a titolo precontrattuale ex art. 1337 c.c., quando ha effettuato erogazioni a soggetto immeritevole, e contrattuale ex art. 1218 c.c., quando ha mantenuto ingiustificatamente linee di credito che avrebbero dovuto essere sospese o revocate per l’aggravarsi delle condizioni del cliente;

- verso il ceto creditorio si pone invece una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c..

L’autonomia del diritto risarcitorio sorto in capo al fallito per effetto della condotta della banca rispetto al diritto risarcitorio collettivo del ceto creditorio si riflette altresì sull’opponibilità da parte del finanziatore abusivo dell’eccezione ex art. 1227 c.c. per concorso del creditore nel verificarsi del fatto dannoso: se la condotta del danneggiato concorrente nella produzione del danno potrà portare ad una riduzione del risarcimento dovuto dalla banca al fallito, così non potrà essere se il curatore fa valere un interesse terzo, ossia quello della massa dei creditori. Poiché l’interesse dei creditori è volto alla reintegrazione della garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio della fallita, pregiudicato dall’abusiva concessione di credito, non rileva affatto la circostanza che la società – tramite la condotta dei suoi amministratori – abbia contribuito nell’illecito con abusivo ricorso al credito.

Sancisce infine la Corte che la responsabilità della banca, finanziatrice abusiva, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 l. fall., in via di solidarietà passiva, in quanto causatori del medesimo danno. Non è tuttavia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi comunque di mero litisconsorzio facoltativo.

21 settembre 2021.


Interessante pronuncia della Suprema Corte in tema di patto di non concorrenza e divieto di storno di clientela.

 

Con ordinanza n. 22247/2021, depositata il 4.8.2021, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di due questioni interessanti, relative alla validità di patti di non concorrenza e di divieto di sviamento di clientela, sottoscritti dal lavoratore.

Sotto il primo profilo, la Corte – confermando la pronuncia della Corte d’Appello di Milano che, a sua volta, aveva rigettato l’impugnazione della sentenza di primo grado – analizza nuovamente i requisiti del patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 cod. civ..

Richiamando precedenti pronunce sul punto, i Giudici ribadiscono i seguenti criteri di valutazione per stabilire se un patto di non concorrenza possa ritenersi validamente concluso: «a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche volte da datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato; b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato (cfr. Cass. n. 9790 del 2020); d) il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro (per tutte Cass. n. 3507 del 2001)».

Trattasi di accertamenti che attengono al merito, difficilmente sindacabili in sede di legittimità.

Analogamente, costituisce apprezzamento di merito – insindacabile in sede di legittimità purché adeguatamente motivato – quello relativo alla congruità o eccessività della clausola penale associata alla violazione del patto ed alla misura della sua eventuale riduzione discrezionale da parte del Giudice.

 

Ancor più interessante è però l’analisi relativa al rapporto fra patto di non concorrenza e divieto di storno di clientela.

Le corti di merito si erano espresse con orientamenti divergenti: se da un lato alcune pronunce ritenevano il divieto di storno come una forma di patto di non concorrenza, soggetto ai requisiti di cui all’art. 2125 cod. civ. (così il Tribunale di Milano con sentenza del 17.3.2018, ad esempio), altre decisioni lo ritenevano invece una fattispecie distinta (la cui violazione costituirebbe sostanzialmente atto di concorrenza sleale e non inadempimento alò patto di non concorrenza: cfr. Tribunale Milano 25.11.2014).

La questione è fondamentale, perché ne derivano due importanti conseguenze: se il divieto di storno di clientela è un patto di non concorrenza, esso soggiace ai limiti di cui all’art. 2125 cod. civ. ed è inoltre ridondante ove sia già previsto un patto espresso di non concorrenza.

Viceversa, se si tratta di fattispecie diversa, le due pattuizioni sono cumulabili e l’art. 2125 cod. civ. non si applica al divieto di storno.

Nell’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha optato per questa seconda interpretazione, affermando che i due patti vietano condotte differenti del lavoratore: il primo infatti proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con il datore di lavoro, per un tempo limitato e a fronte di un corrispettivo; il secondo invece «impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un'altra impresa datrice, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società. Il divieto di storno di clientela mira, poi, a garantire la tutela dell'avviamento della società stipulante, dal momento che esso concorre al mantenimento e alla consolidazione dei buoni rapporti con il portafoglio di clienti acquisiti nel corso del tempo».

I Giudici concludono ritenendo corretta l’interpretazione della Corte d’Appello di Milano, che aveva affermato l’indipendenza delle due clausole in questione (patto di non concorrenza e divieto di storno di clienti) e la loro autonomia nella fonte normativa regolatrice le singole fattispecie e la loro singola violazione avvenuta mediante condotte distinte, per tempi e modi, benché connesse sotto l'aspetto teleologico.

E poiché il divieto di storno non impedisce al lavoratore di svolgere la propria attività lavorativa, anche in concorrenza, limitando solo alcune condotte specifiche, non può essere stesa a tale patto la disciplina di cui all’art. 2125 cod. civ..

14 settembre 2021


Lo Spid per i soggetti fragili o incapaci

 

Come è noto per accedere ai servizi on line della Pubblica Amministrazione è necessario disporre dello Spid (sistema pubblico di identità digitale).

Stante le difficoltà di accesso a molti uffici a causa delle restrizioni conseguite al fenomeno pandemico, la possibilità di accedere a molti servizi per via telematica è divenuta fondamentale.

Esistono però alcune categorie di soggetti per i quali non è possibile o è grandemente difficile disporre dello spid: minori, incapaci, soggetti fragili (anziani, portatori di handicap ecc.).

Spesso questi ultimi sono sottoposti ad amministrazione di sostegno, e fino ad oggi l’amministratore operava per loro conto recandosi personalmente presso gli uffici od usufruendo di pin dispositivi rilasciati ad hoc.

Ciò accadeva in particolare per i servizi INPS, essendo per lo più gli amministrati beneficiari di pensioni e dovendo spesso gli amministratori perfezionare pratiche in tempi celeri senza poter attendere l’intermediazione dei patronati. A tal fine l’istituto rilasciava agli amministratori un Pin dispositivo.

Con la circolare n. 87 del 17 luglio 2020, in linea con le disposizioni del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” (c.d. decreto Semplificazioni 2020), l’INPS ha però  comunicato che dal 1° ottobre 2020 non rilascerà più nuovi PIN, per favorire il passaggio verso gli strumenti di autenticazione previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’Amministrazione Digitale), tra i quali il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID).

I PIN già rilasciati dall’Istituto saranno dismessi alla data del 30 settembre 2021, con la sola eccezione di quelli rilasciati a cittadini residenti all’estero non in possesso di un documento di riconoscimento italiano.

La recente circolare n. 127 del 12.08.2021 ha chiarito che a decorrere dal 16 agosto 2021 il cittadino che sia impossibilitato ad utilizzare in autonomia i servizi online dell’INPS può delegare un’altra persona di sua fiducia all'esercizio dei propri diritti nei confronti dell'Istituto.

La delega dell’identità digitale è anche lo strumento attraverso il quale i tutori, i curatori, gli amministratori di sostegno e gli esercenti la potestà genitoriale possono esercitare i diritti dei rispettivi soggetti rappresentati e dei minori.

Poiché i PIN INPS verranno disattivati il 30 settembre 2021, al fine di continuare ad esercitare il proprio ruolo nei riguardi dei soggetti tutelati, i tutori, i curatori e gli amministratori di sostegno e gli esercenti la potestà genitoriale dovranno quindi richiedere la registrazione di una delega per tutti i soggetti rappresentati che hanno bisogno di interagire con l’INPS.

La richiesta può essere effettuata direttamente dal delegante presso una qualsiasi Struttura territoriale dell’INPS esibendo la modulistica dedicata. L’operatore INPS, dopo aver accertato l’identità del richiedente, provvederà a registrare la delega nel sistema.

I tutori, i curatori e gli amministratori di sostegno in particolare possono richiedere la delega autocertificando la rappresentanza legale ovvero producendo la documentazione atta a provarla, esibendo quindi oltre al modulo di richiesta (mod. AA10 scaricabile dal portale), la copia del documento di riconoscimento del richiedente, la copia del documento di riconoscimento del tutelato e l’autocertificazione o copia del provvedimento di nomina emesso dal giudice (comprensivo del verbale di giuramento).

Nel caso di minori, gli esercenti la potestà genitoriale possono richiedere la registrazione della delega per conto del minore, allegando oltre ai documenti di riconoscimento, l’autocertificazione attestante la potestà genitoriale.

Nel caso invece di persone allettate per lunga durata, ricoverate o impossibilitate a recarsi presso gli sportelli dell'Istituto a causa di patologie, è possibile richiedere la registrazione della delega anche attraverso il delegato (mod. AA09 scaricabile dal portale) allegando l’attestazione sanitaria prodotta da un medico del SSN attestante l'impossibilità del delegante a recarsi presso la Struttura INPS ed i documenti di identità di entrambi.

La delega può essere sia a tempo determinato che indeterminato, ed ogni persona può designare un solo delegato. Ogni delegato può essere designato tale da non oltre cinque persone, fatta eccezione per i tutori, curatori e amministratori di sostegno.

Il delegato può accedere ai servizi dell’INPS in luogo del delegante autenticandosi con le proprie credenziali SPID e scegliendo se operare in prima persona oppure in luogo e per conto del delegante. Le attività svolte dal delegato in luogo del delegante sono tracciate.

Trattasi di procedura snella ed efficace per la quale INPS è la prima amministrazione attivante

8 settembre 2021


Cookie: sei mesi di tempo per adeguarsi alle nuove Linee Guida.

Pubblicate in G.U. il 9 luglio le nuove linee guida sull’uso dei cookie e degli altri strumenti di tracciamento; aggiornamento che fa seguito alle innovazioni introdotte dal GDPR, ma resosi indispensabile anche alla luce dell’esperienza maturata negli ultimi anni, della diffusione di tracciatori invasivi e della moltiplicazione delle identità digitali degli utenti.

Il Garante Privacy precisa: non semplici indicazioni programmatiche, ma principi alla luce dei quali i titolari del trattamento devono, nel termine di sei mesi, rivedere le proprie prassi operative.

Obiettivo delle novità introdotte è quello di rafforzare il potere di decisione degli utenti riguardo all’uso dei loro dati personali quando navigano on line.

Principio cardine rimane quello del consenso dell’utente, che dovrà essere libero, specifico, informato e inequivocabile. Bocciato il legittimo interesse del Titolare come base giuridica del trattamento.

Novità significative proprio in materia di acquisizione del consenso: scrolling, cookie wall, comparsa ripetuta dei banner, sono tutte modalità che andranno riviste.

Indicazioni specifiche sono poi dettate per il banner: dimensioni, contenuto minimo, avvertenze e modalità di chiusura.

Lo Studio Gallasso & Associati è a Vostra disposizione per verificare la rispondenza degli strumenti da Voi utilizzati alle nuove Linee Guida, nonché il rispetto delle disposizioni del GDPR in materia di protezione dei dati personali.

21 luglio 2021.


Lo “Scudo penale" per i vaccinatori 

Il d.l. 1° aprile 2021, n. 44 recante «Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e concorsi pubblici» prevede all’art. 3, che «Per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale (ndr omicidio o lesioni colpose) verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione».

La normativa scaturisce dalle preoccupazioni mostrate dagli operatori sanitari, chiamati ad operare in prima linea in tutta la vicenda pandemica, e destinatari di denunce in presenza di esiti infausti.

L’efficacia esimente prevista dall’art. 3 è correlata alla riconosciuta conformità della condotta dell’agente rispetto alle indicazioni provenienti dalle autorità competenti in ordine allo svolgimento dell’attività rischiosa consentita, e quindi opera sul piano della identificazione della colpa. Dette indicazioni sono piuttosto ampie ed eterogenee, perché comprendono tanto regole relative alla dimensione “clinica” del vaccino (posologia, modalità di conservazione e somministrazione, controindicazioni, avvertenze e precauzioni d’uso) quanto prescrizioni di tipo “organizzativo” (gruppi target della vaccinazione, priorità di somministrazione, modalità di manifestazione del consenso).

La conformità a tali indicazioni inibisce completamente la possibilità di un rimprovero colposo in caso di eventi infausti (non si contempla cioè la differenza tra colpa lieve e colpa grave già acquista dal sistema in materia di responsabilità medica con la Legge Gelli-Bianco). Vi è però un limite temporale, che è quello della durata della campagna vaccinale straordinaria.

La norma che a prima vista sembrerebbe molto tutelante verso gli operatori sanitari, in realtà si conforma ai principi già vigenti nell’ordinamento penale.

Affinché possa operare l’esimente in questione, infatti, deve essere accertato un nesso causale fra l’evento morte o lesioni e la somministrazione di un vaccino Covid-19, e detto accertamento non può che avvenire in sede processuale. E spetta sempre al Giudice la valutazione della colpa in tutte le sue componenti.

Ogni caso va quindi sempre valutato nella sua specificità. Permarrà per esempio sicuramente la responsabilità in caso di somministrazione scorretta, ad es., non preceduta da un’accurata raccolta anamnestica, che avrebbe rivelato controindicazione. O somministrazione seguita da consigli scorretti (ad es., per contrastare l’elevata febbre post vaccino si consiglia di superare il dosaggio di un grammo di Tachipirina) o prescrivere a un paziente ulceroso un farmaco antinfiammatorio per mitigare i dolori muscolari post vaccino.

In assenza di qualsivoglia automatismo, la valutazione spetta sempre agli operatori del diritto, a cui deve essere demandata l’analisi del caso e la concretizzazione della disposizione di legge.

13 luglio 2021


Cosa succede se mi rifiuto di sottopormi all’Alcoltest?

Questa è una domanda che viene posta frequentemente al nostro studio ed è bene chiarire che il rifiuto di sottoporsi all’accertamento alcolemico, richiesto dagli organi di Polizia stradale, configura il reato previsto dall’art 186, comma 7, c.d.s., che stabilisce che si applichino al conducente le pene di cui al comma 2, lettera c) dello stesso articolo.

Ciò si significa che al soggetto si applicano le pene previste per chi guida in stato di ebbrezza, riportando un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), ossia lo scaglione di massima gravità.

La condanna per il reato in questione comporta l'ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l'arresto da sei mesi ad un anno, oltre alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo.

Rifiutarsi di sottoporsi al test non è mai una buona idea dunque.

L’accertamento può essere effettuato dagli organi di Polizia, ai sensi dei commi 3, 4 e 5 dell’art. 186 c.d.s, in loco, con accompagnamento presso il più vicino ufficio o comando, ovvero in caso di necessità presso una struttura sanitaria.

La norma non consente, tuttavia, di limitare la libertà personale del soggetto da sottoporre al controllo, accompagnandolo coattivamente in luogo diverso da quelli sopra indicati.

Nel caso recentemente esaminato dalla Suprema Corte, il conducente del veicolo era stato accompagnato presso una Caserma posta a 25 km di distanza dal luogo del sinistro, nonostante la presenza di uffici ben più prossimi, e solo a quel punto il soggetto si era rifiutato di sottoporsi all’esame.

Le forze dell’Ordine non avrebbero potuto trasportare il soggetto sino alla Caserma, perché la norma non prevede tale facoltà. Di qui la questione. Può dirsi configurato il reato di cui all’art. 186, comma 7, c.d.s. se il rifiuto di sottoporsi all’esame succede a un comportamento illegittimo degli agenti di Polizia?

La risposta della Corte con la sentenza 16 dicembre 2020 - 31 marzo 2021, n. 12142 è in senso affermativo. Nel caso di specie il soggetto non era stato costretto a seguire gli agenti in Caserma, ma vi si era recato di propria volontà. Non è stata dunque usata coazione nei suoi confronti, cosa a cui si sarebbe potuto opporre. Una volta giunto in Caserma volontariamente non poteva più rifiutarsi di fare il test.

Diverso sarebbe stato se l’accompagnamento in caserma fosse stato coattivo. La Corte di Cassazione già nel 2012 con la sentenza n. 21192 aveva chiarito, infatti, come nel rispetto del principio di legalità, non può essere riconosciuta nemmeno implicitamente la facoltà agli organi di Polizia di ridurre la libertà personale di un soggetto in assenza di una precipua disposizione di legge.

07 luglio 2021


 

Capitalizzazione trimestrale degli interessi.

La Suprema Corte (ord. 17634 del 21.06.2021) è tornata ad esprimersi su un tema ancora molto dibattuto in ambito di contezioso bancario, ossia quello relativo alla validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi pattuite prima dell’emanazione della Delibera CICR del 9 febbraio 2000.

Confermato l’orientamento giurisprudenziale prevalente: non è sufficiente a legittimare l’anatocismo per il periodo successivo alla entrata in vigore del provvedimento citato l’invio al correntista, da parte dell’istituto di credito, degli estratti conto recanti l’indicazione dell’adeguamento alla delibera, anche se pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Occorre, al contrario, ai fini della validità della clausola regolante la capitalizzazione degli interessi, un’apposita convenzione scritta, pari a quella richiesta per la stipulazione dei contratti soggetti alla nuova disciplina.

Ripercorrendo brevemente la cronistoria sul tema: con L. 128/1998 il Parlamento delegava il Governo ad emanare disposizioni integrative e correttive del testo unico bancario; in attuazione della legge delega veniva quindi emanato il D.Lgs. 342/1999. L’art. 25 riguarda il tema oggetto del presente approfondimento.

Con la disposizione di cui al comma 2 veniva attribuito al CICR (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) il potere di stabilire modalità e criteri relativamente alla produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.

Con il successivo comma 3 veniva poi introdotta una sanatoria delle clausole di capitalizzazione degli interessi pattuite prima dell’emanazione del provvedimento da parte del CICR prevedendo al contempo che le medesime, per il periodo successivo, avrebbero dovuto essere adeguate, a pena di inefficacia invocabile dal solo correntista, al disposto della detta delibera.

Come noto il comma 3 dell’art. 25 da ultimo citato è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n. 425/2000, in quanto la disposta deroga retroattiva all’art. 1283 c.c. (recante un generale divieto di anatocismo) eccedeva il potere conferito al Governo con la legge delega.

Conseguenza della pronuncia di incostituzionalità è stata tuttavia una grave incertezza circa la legittimità delle clausole di capitalizzazione degli interessi stipulate anteriormente all’emanazione della delibera CICR 9.02.2000 e adeguate secondo il meccanismo di cui all’art. 7 (disposizioni transitorie) del provvedimento medesimo.

Ripercorsa tutta la vicenda, la Corte di Cassazione ha infine ribadito – con la recente ordinanza in commento – che nei contratti di conto corrente bancario stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della Delibera CICR del 9.02.2000, la sentenza della Consulta – pur non essendo intervenuta sull’attribuzione al CICR del potere di regolamentare il transito dei vecchi contratti nel nuovo regime (di cui all’art. 25, c. 2) – ha invece indirettamente inciso sulla disciplina transitoria di cui all’art. 7 della Delibera. Ciò in quanto, avendo fatto venir meno, per il passato, la sanatoria delle clausole che prevedevano la capitalizzazione degl’interessi, ha impedito di assumerle come termine di comparazione ai fini della valutazione dell’eventuale peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, in tal modo escludendo la possibilità di provvedere all’adeguamento delle predette clausole mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, come consentito dal comma secondo dell’art. 7, e rendendo invece necessaria una nuova pattuizione.

Aggiunge infine la Suprema Corte che non può operare nemmeno il meccanismo di sostituzione automatica previsto dall'art. 1339 c.c., in quanto l'impossibilità di procedere al giudizio comparativo richiesto dall'art. 7, comma 2, della citata Delibera, se per un verso impediva il ricorso alle modalità semplificate contemplate da tale disposizione, per altro verso non esonerava la banca dall'obbligo, imposto invece dal primo comma, di provvedere all'adeguamento delle condizioni contrattuali nelle forme previste dall'art. 6 della medesima delibera, la cui inosservanza comportava l'inefficacia della clausola anatocistica.

29 giugno 2021


La Corte Costituzionale dichiara incostituzionale la seconda proroga del blocco degli sfratti.

Depositata ieri, 22 giugno 2021, la sentenza n. 128 del 2021, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, recante «Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi, di realizzazione di collegamenti digitali, di esecuzione della decisione (UE, EURATOM) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, nonché in materia di recesso del Regno Unito dall’Unione europea», convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 2021, n. 21. (cosiddetto decreto «milleproroghe»), per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma della Costituzione.

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in data 13 gennaio 2021 e dal Giudice delle esecuzioni immobiliari presso il Tribunale di Rovigo in data 18 gennaio 2021, con giudizi poi riuniti. I giudici a quo avevano sollevato anche altri profili di illegittimità costituzionale, nonché di contrasto con altri testi fondamentali, inclusa la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, rilievi che la Corte ha ritenuto comunque assorbiti dal contrasto con gli articoli 3 e 24.

Come si legge nel comunicato stampa della stessa Consulta, la Corte ha ritenuto «non più proporzionato il bilanciamento tra la tutela giurisdizionale del creditore e quella del debitore nelle procedure esecutive relative all’abitazione principale di quest’ultimo».

La Corte rileva che, dopo l’iniziale sospensione generalizzata, i giudizi civili sono ripresi gradualmente, con modalità compatibili con la pandemia, mentre la sospensione degli sfratti è rimasta immutata ed è stata ulteriormente prorogata.

I giudici rimettenti hanno altresì giustamente osservato come la norma che ha disposto la sospensione non contenesse alcun riferimento alla capacità reddituale del debitore (e quindi ad un’esigenza di tutela valutata in concreto), ma solo alla destinazione del bene ad abitazione principale.

Il paradosso, evidente a tutti anche a prescindere dai profili di costituzionalità, è che nell’ipotesi di un locatore che avesse perso ogni reddito a causa della pandemia e un conduttore moroso che avesse invece mantenuto redditi anche elevati, l’ordinamento avrebbe comunque preferito il secondo.

Come motiva la Corte Costituzionale, l’art. 24 primo comma della Costituzione garantisce la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, garanzia che comprende anche l’esecuzione forzata in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione dei provvedimenti giurisdizionali. La tutela in sede esecutiva è cioè strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale, perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore.

La Corte prosegue precisando che la sospensione delle procedure esecutive deve costituire un evento eccezionale, motivato da specifiche esigenze transitorie e necessariamente limitato nel tempo.

Se è vero che il legislatore ordinario – in presenza di altri diritti meritevoli di tutela, come quello fondamentale all’abitazione – può procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva, è altrettanto vero che non può prescindersi da un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, «da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite».

La Corte conferma che il diritto all’abitazione costituisce «diritto sociale», incluso nel catalogo dei diritti inviolabili in quanto l’abitazione è da considerarsi «bene di primaria importanza». Ciò nonostante, anche «nell’ipotesi in cui sia in discussione il diritto all’abitazione del debitore esecutato, la sospensione delle procedure esecutive può tuttavia essere contemplata dal legislatore solo a fronte di circostanze eccezionali e per un periodo di tempo limitato, e non già con una serie di proroghe, che superino un ragionevole limite di tollerabilità».

La proroga della sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale, di cui alla disposizione oggetto di esame della Consulta, non indica alcun criterio selettivo per identificare i beneficiari della tutela eccezionale, che resta applicabile in blocco a tutti i conduttori di immobili destinati ad abitazione principale, indipendentemente da ogni altra circostanza. Il sacrificio richiesto ai creditori avrebbe dovuto invece essere dimensionato rispetto alle reali esigenze di protezione dei debitori, con l’indicazione di adeguati criteri selettivi.

In tal modo, si realizza un’evidente e inaccettabile sproporzione fra la tutela del conduttore-debitore e quella del locatore-creditore, che viola gli articoli 3 e 24 Cost.

La Corte conclude sottolineando che resta comunque possibile per il legislatore, ove l’evolversi dell’emergenza epidemiologica lo richieda, «adottare le misure più idonee per realizzare un diverso bilanciamento, ragionevole e proporzionato, contemperando il diritto all’abitazione del debitore esecutato e la tutela giurisdizionale in executivis dei creditori procedenti».

23 giugno 2021

 


 

La distrazione dei fondi ricevuti in virtu’ della normativa emergenziale non integra il reato di malversazione a danno della stato

 

Tra le misure adottate per far fronte all’emergenza causata dalla pandemia da Covid-19 vi è il cosiddetto decreto liquidità, (D.L. 23 convertito con legge 40 del 2020) che prevende, tra le altre, la possibilità per le imprese italiane di ottenere finanziamenti assistiti da garanzia rilasciata da SACE spa (società controllata da Cassa depositi e prestiti), a sua volta garantita per legge dallo Stato, finalizzati a sostenere il costo del personale, canoni di locazione o di affitto di ramo d’azienda, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali localizzate in Italia, ovvero per il pagamento di rate di finanziamenti scaduti (per non più del 20%).

Molte imprese hanno fruito di tale iniezione di liquidità, ma non sempre i finanziamenti sono stati utilizzati per le finalità previste dalla legge.

Alcune Procure hanno ipotizzato che in tale contesto si possa profilare il reato previsto dall’art. 316-bis del codice penale, che punisce la malversazione a danno dello Stato.

Con la recente sentenza n. 22119 depositata dalla sezione sesta il 4 giugno 2021 la Corte di Cassazione ha escluso detto inquadramento.

La fattispecie richiamata dell’art. 316 bis c.p. è posta a tutela della corretta gestione e utilizzazione delle risorse pubbliche destinate ai fini di incentivazione economica, e quindi presuppone che l’erogazione provenga dallo Stato o da un altro ente pubblico e sanziona l’elusione del vincolo di destinazione che connota la prestazione pubblica.

Secondo gli Ermellini il decreto liquidità prevede invece un finanziamento che proviene da un ente privato (solitamente un istituto bancario) e la partecipazione dell’ente pubblico a titolo di garanzia non incide sulla natura privatistica dell’operazione, anche perché l’intervento pubblico è limitato al caso dell’inadempimento nella restituzione del finanziamento (ed anche in questo caso non muterebbe comunque la natura privatistica del soggetto erogante, ma vi sarebbe solo una surroga nel diritto di credito).

Trattandosi peraltro di un mutuo di scopo, in cui la destinazione delle somme è parte integrante del contratto, ne deriva una violazione civilistica con le correlative conseguenze patrimoniali, ma ne è esclusa, allo stato, la punibilità a titolo di malversazione.

15 Giugno 2021


Nuove proroghe della sospensione dell'esecuzione degli sfratti.

Le disposizioni introdotte a causa della pandemia hanno riguardato anche il rilascio degli immobili a seguito di sfratto per morosità, la cui esecuzione è stata sospesa dapprima sino al 30 ottobre 2020 e poi prorogata al 31 gennaio 2021 e successivamente al 30 giugno 2021.

Con l’avvicinarsi della data del 30 giugno molti locatori speravano in una ripartenza delle procedure di esecuzione, ormai sospese da oltre un anno, con grave pregiudizio per i proprietari.

Il D.L. “sostegni” n. 41/2021, convertito in Legge il 21 maggio 2021 introduce tuttavia nuove proroghe.

Dal 01 luglio potranno essere eseguiti solo i provvedimenti di rilascio emessi entro il 27 febbraio 2020.

Per i provvedimenti di rilascio emessi dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020, la sospensione è prorogata sino al 30 settembre 2021.Infine, i provvedimenti adottati dal 1° ottobre 2020 al 30 giugno 2021 saranno eseguibili solo dal 01 gennaio 2022.

Tali disposizioni sono evidentemente lesive degli interessi dei locatori, tanto che il Tribunale di Trieste ha sollevato in proposito una questione di costituzionalità, ritenendo che si configuri una fattispecie illegittima di esproprio in senso sostanziale senza indennizzo.

In particolare, il Tribunale di Triste ha ritenuto che la sospensione dell’esecuzione degli sfratti sia irragionevole e contraddittoria nella misura in cui non tiene in considerazione l’insorgenza temporale della morosità, ossia se la stessa sia precedente o successiva all’emergenza sanitaria e che, inoltre, operi automaticamente, senza la previsione di una verifica in concreto da parte del Giudice della sussistenza delle difficoltà finanziarie o economiche del conduttore.

08 giugno 2021 


Nuovi interventi in materia di Superbonus 110%.

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge 31.05.2021 n. 77, rubricato “Governance” del PNR e Resilienza, che si pone sulla scia del recente D.L. 59/2021, recante il piano nazionale degli investimenti complementari.

Il Piano Nazionale di Ripresa è lo strumento che dovrà dare attuazione, in Italia, al programma Next Generation UE, importante opportunità di sviluppo, investimenti e riforme i cui principali obiettivi, condivisi a livello europeo, sono digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale.

Tra i numerosi interventi, novità anche in materia di Superbonus 110%.

Allargato il raggio d’azione a strutture come RSA e case di cura, ospedali e poliambulatori, collegi, ospizi e caserme.

Il beneficio fiscale verrà riconosciuto, inoltre, anche per interventi volti alla rimozione delle barriere architettoniche.

Prorogato al 31 dicembre 2022 il Superbonus per edifici plurifamiliari e per i condomini, e al 31 dicembre 2023 per gli IACP.

Semplificazione in tema di pratiche abilitative: non sono più necessarie asseverazioni dei tecnici abilitati in merito allo stato legittimo degli immobili plurifamiliari. Tutti i lavori, ad esclusione della demolizione e ricostruzione, sono da considerarsi come manutenzione straordinaria e richiedono esclusivamente la Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata (CILA).

Intervento quest’ultimo che ha lo scopo di velocizzare le pratiche, eliminando lo step dell’accesso agli atti per la verifica di conformità urbanistica-edilizia e, di conseguenza, l’apertura dei cantieri.

Il beneficio fiscale del Superbonus potrà essere revocato nei seguenti casi:

- mancata presentazione della CILA;

- interventi realizzati in difformità dalla CILA;

- assenza dell’attestazione degli estremi del titolo abilitativo che ha previsto la costruzione dell’immobile oggetto d’intervento o del provvedimento che ne ha consentito la legittimazione ovvero è attestato che la costruzione è stata completata in data antecedente al 1° settembre 1967;

- non corrispondenza al vero delle attestazioni ai sensi del comma 14 dell'art. 119 del Decreto Rilancio.

Attenzione, tuttavia, il decreto precisa che “resta impregiudicata ogni valutazione circa la legittimità dell'immobile oggetto di intervento”. Le eventuali irregolarità presenti, pertanto, pur non dovendo essere preliminarmente accertate dal tecnico, potranno comunque essere segnalate e sanzionate nelle opportune sedi.

Solo bypassato quindi, purtroppo, il problema delle difformità costruttive, oltre il 2%, che affligge in larga misura il nostro patrimonio edilizio.

1 giugno 2021


Nullità dei patti in vista del divorzio: una nuova pronuncia della Cassazione conferma l’inderogabilità dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, sottratti alla disponibilità delle parti.

 

Con l’ordinanza n. 11012 del 26 aprile 2021, la Corte di Cassazione ha ribadito che i patti stipulati dai coniugi in sede d separazione, volti a regolamentare i rapporti patrimoniali anche in vista del successivo divorzio, sono insanabilmente nulli per illiceità della causa.

Tali patti sarebbero infatti contrari al disposto dell’art. 160 del codice civile, secondo il quale «Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio».

La recente pronuncia conferma e consolida un orientamento tradizionale e restrittivo, già adottato in precedenza dai Giudici della Corte di Cassazione, in particolare con la sentenza n. 2224 del 30 gennaio 2017 (espressamente richiamata), ma anche in numerosi altri precedenti.

Nel caso di specie, i coniugi avevano raggiunto un accordo consensuale di separazione, il quale prevedeva il pagamento da parte del marito in favore della moglie di un assegno mensile, per tutta la vita.

Gli Ermellini precisano che, per decidere in ordine alla validità dell’accordo, occorre previamente verificare quali siano la natura e la causa dell’accordo e dell’impegno a pagare una rendita vitalizia.

Qualora si tratti di dirimere una controversia di natura patrimoniale e la rendita costituisca, ad esempio, modalità esecutiva di un complesso accordo transattivo, senza però fare riferimento al futuro assetto degli aspetti economici derivanti dalla pronuncia di divorzio, la pattuizione può essere ritenuta valida e vincolante. Sul punto, la Corte di Cassazione si era espressa con sentenza n. 8109 del 14 giugno 2000, affermando la validità di accordi aventi «funzione di porre fine ad alcune controversie di natura patrimoniale insorte tra i coniugi, senza alcun riferimento, esplicito o implicito, al futuro assetto dei rapporti economici tra i coniugi conseguenti all'eventuale pronuncia di divorzio», anche se «una patte di tale accordo sia stata trasfusa nella separazione consensuale, non essendovi alcun nesso di strumentalità o di conseguenzialità necessaria tra detta separazione e il futuro ed eventuale divorzio».

Qualora invece la corresponsione vitalizia di una somma mensile trovi la propria causa nella rottura del vincolo matrimoniale e il pagamento previsto nell’accordo, in quanto destinato anche a regolamentare i rapporti nascenti dalla futura pronuncia di divorzio, abbia natura giuridica di assegno divorzile, la relativa disciplina deve ritenersi inderogabile, con la duplice conseguenza che (i) il patto è nullo per illiceità della causa e (ii) spetta al giudicante verificare se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che ha natura assistenziale e trova la sua giustificazione nell’inadeguatezza di mezzi del coniuge beneficiario rispetto al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio).

Questo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte:

«In tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione, i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito - credito portata da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell’uno e a favore dell’altro da versarsi "vita natural durante", il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) "in occasione" della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perché giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare)».

Con la richiamata pronuncia n. 2224 del 30 gennaio 2017 la S.C. aveva enunciato il principio di diritto secondo cui gli accordi con cui i coniugi, in sede di separazione, stabiliscono già l’assetto economico applicabile in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono nulli per illiceità della causa, perché stipulati in violazione dell’art. 160 cod. civ. che fissa il principio di radicale indisponibilità dei diritti e doveri nascenti dal materia matrimonio. Di tali patti, pertanto, il giudice del divorzio non può tenere conto né quando essi limitano o escludono il diritto del coniuge economicamente più debole ad una prestazione economica necessaria a sopperire all’inadeguatezza dei suoi mezzi, né quando invece soddisfano tale esigenza. Ciò anche perché una siffatta pattuizione preventiva potrebbe essere diretta a determinare il consenso alla dichiarazione dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, limitando la libertà di agire e difendersi nel relativo giudizio (ulteriore motivo di illiceità della causa).

Pur comprendendo le ragioni strettamente giuridiche della decisione, non può non rilevarsi come essa contrasti con un auspicabile maggior valore del principio di autodeterminazione delle parti, anche in materia di rapporti economici e patrimoniali nel diritto di famiglia.

Molti ordinamenti ammettono, proprio a tal fine, patti aventi ad oggetto la regolamentazione degli aspetti economici anche prima del matrimonio ed in vista dio una sua possibile crisi (i c.d. “prenuptial agreements”).

Anche senza arrivare a tanto, lasciare più spazio ad accordi consensuali validi e vincolanti apparirebbe più coerente con l’evoluzione della società odierna e dei rapporti coniugali ma, soprattutto, sarebbe auspicabile in un’ottica di riduzione del contenzioso familiare. Del resto, l’introduzione della procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio depone in tal senso.

Non può dimenticarsi poi che, secondo l’attuale disciplina prevista dall’art. 3 della legge n. 898 del 1° dicembre 1970, nel caso di separazione consensuale i coniugi possono domandare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio dopo soli sei mesi dalla comparizione innanzi al presidente del Tribunale. Impedire che gli accordi economici raggiunti in sede di separazione restino validi e vincolanti anche nel procedimento di divorzio attivato sei mesi dopo, appare francamente troppo limitativo.

26 maggio 2021


L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITA’ PER I REATI CONTRO IL PATRIMONIO COMMESSI ALL’INTERNO DELLA FAMIGLIA

Il nostro codice penale punisce al titolo XIII molteplici condotte lesive di interessi patrimoniali: furto, rapina, estorsione, danneggiamento, truffa, usura, appropriazione indebita e similari.

Accade spesso che all’interno di situazioni familiari compromesse, in presenza soprattutto di un elevato grado di litigiosità (separazioni tra coniugi, magari a causa di infedeltà, vicende successorie, rapporti di vicinato tra parenti) vengano poste in essere condotte siffatte, portate all’attenzione dell’autorità inquirente.

Ci si dimentica a volte che per dette fattispecie, se avvenute all’interno della famiglia, esiste una specifica causa di non punibilità disciplinata dall’art. 649 del codice penale.

Il legislatore ha infatti ritenuto preminente rispetto al bene “patrimonio” tutelato dalle specifiche norme, il rapporto familiare di rilevanza costituzionale, caratterizzato da una pregnante comunanza di interessi di carattere morale e sociale, prevedendo specificamente la non punibilità dell'autore dei delitti detti quando commessi in danno del coniuge non legalmente separato (e serve una sentenza definitiva che lo attesti), dell'ascendente o discendente o affine in linea retta, ovvero adottante o adottato, del fratello o sorella conviventi (fatta eccezione per i delitti più gravi di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, ovvero per tutti i delitti contro il patrimonio qualora commessi con violenza sulle persone), e limitandone la punibilità a querela della persona offesa se commessi a danno del coniuge legalmente separato, del fratello o sorella non conviventi, dello zio o nipote o affine in secondo grado conviventi.

Si considera, evidentemente, che la punibilità dei delitti contro il patrimonio in presenza dei legami detti possa pregiudicare l'istituzione familiare.

Trattasi innanzitutto di una causa di esclusione della punibilità che non esclude l’illiceità del fatto, e permane pertanto la risarcibilità civilistica del danno.

Il trattamento privilegiato è correlato all’intensità del legame e richiede che il familiare dell'autore dell'illecito sia il soggetto passivo del reato, perciò non opera quando portatore dell'interesse tutelato sia un terzo. Nei casi in cui il diritto di proprietà sia distinto dal diritto di godimento occorre verificare quale sia il bene economico patrimoniale leso dal reato e chi ne sia il titolare.

Il rapporto familiare deve sussistere al momento della commissione e la norma non è estensibile per analogia.

Poiché la nozione di famiglia è in continua evoluzione all’interno della nostra società ed il diritto vivente deve esserne specchio, il decreto legislativo 19.01.2017 n. 6 ha esteso la previsione di non punibilità anche al caso in cui i delitti siano stati commessi ai danni “della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Non è invece ancora stato contemplato legislativamente lo stato di “convivenza”, così da indurre la giurisprudenza a ripetuti interventi sul punto, non sempre convergenti.

La Corte costituzionale, però, chiamata ripetutamente a pronunciarsi sulla legittimità della norma, ha osservato anche recentemente che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale e non è a questo automaticamente assimilabile per desumerne l'esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento, poiché non presenta «i caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull'affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile».

In sostanza, per poter prevalere, nel bilanciamento di opposti interessi, l’esigenza di tutela della famiglia, è necessario che il vincolo che ne costituisce presupposto sia dotato di un minimo di sacramentalità, che ne sancisce la serietà e la non occasionalità.

Del resto, quando il legislatore ha voluto parificare le situazioni di convivenza al matrimonio, lo ha fatto espressamente (per esempio nel caso degli atti persecutori di cui all’art 612 bis c.p.).

Stante l’aperto dibattuto sul punto, da più parti si invoca un intervento legislativo dirimente.

Merate, 17 maggio 2021


Nei giudizi soggetti a mediazione obbligatoria introdotti con ricorso per decreto ingiuntivo, l'onere di promuovere la procedura è a carico della parte opposta.

 

Il D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 prevede che l’avvio di una procedura di mediazione civile e commerciale sia condizione di procedibilità per l’instaurazione di un contenzioso giudiziario nelle materie ivi elencate.

In particolare, l’art. 5 al comma 1-bis, prevede che «chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione» quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale» e che «l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza» mentre, ai sensi del successivo comma 4 del medesimo articolo, la condizione di procedibilità non si applichi «nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione».

La norma aveva generato contrasti giurisprudenziali e conflitti in dottrina sulla parte da ritenere onerata dell’obbligo di attivare la procedura di mediazione, nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo.

Secondo una tesi più articolata, la decisione sarebbe stata differente a seconda che fosse concessa o meno la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.

Secondo altra tesi, fatta propria dalla Cassazione con la sentenza n. 24629 del 2015, sarebbe stata la parte opponente, in quanto interessata al giudizio pieno di cognizione, a dover introdurre il procedimento di mediazione.

La terza possibilità era che fosse la parete convenuta opposta, in quanto attrice in senso sostanziale, a dovervi provvedere.

Quest’ultima è la soluzione ritenuta più corretta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che, con ben motivato e interessante ragionamento, concludono che l’onere di avviare la mediazione, quando essa costituisca condizione di procedibilità, non possa che ricadere sulla parte creditrice, convenuta opposta, in quanto soggetto che “intende esercitare in giudizio” la propria azione creditoria, per quanto instaurata con un procedimento a contraddittorio differito come quello monitorio.

Di seguito il principio di diritto enunciato dalle SS.UU.:

«Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi del D. Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1-bis, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo».

Le conseguenze non sono di poco conto, atteso che, in caso d’inerzia della parte opposta, alla dichiarazione d’improcedibilità di cui all’art. 5, comma 1-bis D. Lgs. 28/2010, conseguirà non solo l’estinzione del giudizio di opposizione ma altresì la revoca del decreto ingiuntivo.

Punto espressamente affrontato dalla Suprema Corte, che lo ha indicato fra le ragioni di ordine logico e sistematico a sostegno della decisione. Se l’onere fosse a carico dell'opponente, la conseguenza della pronuncia di improcedibilità per la mancata attivazione della mediazione sarebbe quella, definitiva e “irreparabile”, dell'irrevocabilità del decreto ingiuntivo. Al contrario, onerando l'opposto, la sua inerzia comporta anche la revoca del decreto ingiuntivo, il quale tuttavia può sempre essere riproposto, senza un “danno” irreversibile per alcuna delle parti.

Soluzione che, a giudizio della Corte, è anche quella più costituzionalmente orientata. Apparirebbe infatti contrario ai principi costituzionali di difesa ed ai limiti costituzionali alla c.d. “giurisdizione condizionata” ammettere l’irrevocabilità del decreto ingiuntivo quale conseguenza del mancato esperimento di un procedimento che non è giurisdizionale.

5 maggio 2021


Superbonus 110% e abusi edilizi: un utile chiarimento dell’Agenzia delle Entrate.

 

Uno dei principali freni all’applicazione delle agevolazioni di cui al c.d. Superbonus 110% per interventi di efficientamento energetico degli edifici, riguarda la necessità di accertare l’assenza di irregolarità edilizie e urbanistiche e di certificare il c.d. stato legittimo dei beni.

Lo Stato, giustamente, non accorda agevolazioni per costruzioni che presentano abusi edilizi. È tuttavia nota l’estrema diffusione di interventi modificativi non autorizzati, malcostume italico che preclude la certificazione necessaria ad ottenere il Superbonus (salvo sanatoria ove si tratti di abusi sanabili).

Per gli immobili in condominio, onde semplificare l’iter ed evitare che abusi individuali precludano a tutti i condomini di fruire delle agevolazioni, il legislatore – con la legge 126/2020 di conversione del D.L. 104/2020 (c.d. Decreto agosto) ha inserito nell’art. 119 del D.L. 30/2020 (c.d. Decreto Rilancio) un comma 13-ter, che recita:

«Al fine di semplificare la presentazione dei titoli abilitativi relativi agli interventi sulle parti comuni che beneficiano degli incentivi disciplinati dal presente articolo, le asseverazioni dei tecnici abilitati in merito allo stato legittimo degli immobili plurifamiliari, di cui all'articolo 9-bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e i relativi accertamenti dello sportello unico per l'edilizia sono riferiti esclusivamente alle parti comuni degli edifici interessati dai medesimi interventi».

Con interpello diretto alla Direzione Regionale Emilia Romagna dell’Agenzia delle Entrate, un contribuente ha richiesto un chiarimento, suggerendo una soluzione interpretativa secondo la quale, data la lettera della legge, la presenza di eventuali non conformità urbanistiche che dovessero essere riscontrate nelle singole unità abitative (appartamenti) non dovrebbe precludere l'accesso al Superbonus 110% non solo per gli interventi c.d. "trainanti" (specificamente individuati dal contribuente in cappotto termico e sostituzione di caldaie), ma anche per determinati interventi c.d. “trainati” quali la sostituzione di serramenti ed infissi. Secondo l’istante, dal momento che serramenti e infissi insistono sulle facciate del condominio, che sono parti comuni, dovrebbero a tutti gli effetti considerati essi stessi quali parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi della norma richiamata.

L’Agenzia, in risposta all’interpello, ha concordato con la soluzione interpretativa prospettata, specificando di ritenere la norma molto chiara sul punto e precisando espressamente che «la novità introdotta dal comma 13-ter, in vigore dal 14 ottobre 2020, consente al tecnico abilitato di asseverare la regolarità urbanistica degli immobili plurifamiliari con esclusivo riguardo alle parti comuni, evitando di dover individuare eventuali abusi commessi dai singoli condomini sulle proprie unità immobiliari».

Un chiarimento di grande portata, che – unito alla proroga sino al 2023, oramai quasi certa – potrebbe dare impulso alla diffusione di un incentivo fiscale che ha destato grandissimo interesse ma che, nei numeri, ad oggi stenta ancora a decollare.

20 aprile 2021


Diritto al risarcimento del danno in caso di mancato o carente consenso informato in ambito sanitario

 

In applicazione dei principi costituzionali e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, l'art. 1 della Legge 22 dicembre 2017 n. 219 stabilisce che, in linea generale e salvo solo alcune residuali ipotesi legislativamente disciplinate, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato della persona interessata. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici ed ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari a cui viene sottoposta, nonché riguardo alle possibili alternative ed alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

Laddove le informazioni siano fornite in modo incompleto, poco comprensibile o anche troppo generico, non pongono il soggetto nella condizione di una scelta veramente consapevole ed espressione del proprio diritto all'autodeterminazione, quale manifestazione del più generale principio di libertà.

L'omessa o carente informazione, peraltro, non configura un danno risarcibile in re ipsa. Non è possibile cioè rivendicare un risarcimento per il solo fatto di non essere stato correttamente informato dai sanitari.

È necessario che a tale mancanza siano conseguiti pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali, secondo un rapporto di regolarità causale, e di cui venga fornita rigorosa prova da parte del danneggiato, con ogni mezzo, ivi compreso il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni (Cass. 24471/2020).

La sentenza della Corte di Cassazione n. 28985 del 11.11.2019 ha individuato due tipologie di danno che possono derivare dalla violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente: un danno alla salute ed un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione. Secondo i supremi giudici si possono ipotizzare diverse casistiche: a) il paziente subisce un danno alla salute a causa di un erroneo intervento di cui non ha ricevuto corretta informazione, ma a cui si sarebbe comunque sottoposto: avrà diritto al risarcimento del danno sia morale che relazionale per le conseguenze derivate dall'erroneo intervento. b) il paziente subisce un danno per un erroneo intervento di cui non ha ricevuto corretta informazione, e a cui non si sarebbe sottoposto: avrà diritto sia al risarcimento del danno alla salute che a quello derivante dalla lesione del diritto all'autodeterminazione, se ulteriore e sussistente. c) il paziente subisce un intervento corretto nella sua realizzazione ma non nell'informazione, che aggrava le sue condizioni preesistenti, a cui, se lo avesse saputo, non si sarebbe sottoposto: avrà diritto non solo al risarcimento del danno per lesione del diritto all'autodeterminazione, ma altresì del danno alla salute per l'aggravamento subito, che in caso di corretta informazione non si sarebbe verificato (perché avrebbe rifiutato l'intervento). d) il paziente non riceve una corretta diagnostica che gli impedisce di accedere a più accurati e attendibili accertamenti: avrà diritto al risarcimento solo ove dimostri un danno non patrimoniale in termini di sofferenza soggettiva per la contrazione della libertà di disporre di sé. Non si ritiene invece dovuto risarcimento nel caso di intervento corretto nell'esecuzione, anche se non nell'informazione, se il paziente vi si sarebbe comunque sottoposto.

Le pronunce di merito già intervenute in materia hanno motivato di liquidare detto danno secondo equità, delineando ipotesi di varia entità a seconda della condizione soggettiva dei danneggiati, dei postumi subiti, dell'invasività dell'intervento, della sofferenza patita.

Il giudizio è quindi fortemente personalizzato e – pur non potendo prescindere dal necessario ricorso ai barémes medico-legali – deve cogliere le effettive peculiarità della vicenda concreta sub iudice, valorizzandone i fattori.

Siamo a disposizione per esaminare ed approfondire i casi di specie.

13 aprile 2021


SUPERBONUS 110%: detrazione, cessione del credito o sconto in fattura?

 

Il D.L. 34/2020, c.d. decreto rilancio, ha introdotto l’agevolazione fiscale definita Superbonus, che consente di beneficiare di una detrazione delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 30 giugno 2022 (salvo proroghe), con un’aliquota del 110% per specifici interventi in ambito di efficienza energetica, di interventi antisismici, di installazione di impianti fotovoltaici o delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici.

La novità ha riscosso notevole interesse perché consente, di fatto, di eseguire importanti opere di ristrutturazione, senza dover pagare alcunché ed anzi ottenere un vantaggio di un ulteriore 10 %.

Si è creata tuttavia una certa confusione in ordine alle modalità di accesso al beneficio.

L’art. 119 del D.L. 34/2020 prevede infatti una detrazione fiscale che si recupera nei 5 anni successivi all’intervento. Questo primo metodo prevede che la richiesta venga effettuata direttamente dal contribuente e siccome la detrazione spettante annua compete fino all'imposta lorda dello stesso, un'eventuale detrazione eccedente andrebbe persa.

Peraltro, non tutti possono beneficiare della detrazione, poiché sono previsti dei requisiti soggettivi che limitano notevolmente l’accesso alla detrazione fiscale.

L’art. 121 del D.L. 34/2020 prevede delle alternative, definite opzioni, che consentono al contribuente di non sostenere alcun esborso ed accedere al beneficio tramite “cessione del credito” o “sconto in fattura”

Con la cessione del credito la detrazione spettante al contribuente viene ceduta a terzi (fornitori, altri soggetti, istituti di credito ecc.) che hanno a loro volta la possibilità di cedere il credito.

La cessione non può essere parziale. Tuttavia, l’opzione può essere esercitata anche in anni successivi ed avere ad oggetto le rate residue di detrazione; in tal caso la cessione deve riguardare tutte le rate residue ed è irrevocabile.

Con lo Sconto in fattura il contribuente si vede direttamente applicare uno sconto, per un ammontare massimo del 100%, nella fattura emessa dal fornitore, il quale lo recupera maturando un credito verso l’erario da usare in compensazione o cedere a sua volta a terzi.

A differenza della cessione del credito, lo sconto può essere parziale e ciò che non è stato oggetto di sconto potrà essere detratto con le modalità ordinarie dalla dichiarazione dei redditi.

08 Aprile 2021

 


Divieto di cumulo tra indennizzo assicurativo a risarcimento del danno 

Con riferimento a un sinistro stradale, per il danneggiato che abbia stipulato un’assicurazione contro gli infortuni non mortali la giurisprudenza ha sancito il divieto del cumulo tra il risarcimento ottenuto dal terzo a titolo di responsabilità aquiliana e l’indennizzo dovuto dall’assicuratore.

Questo principio è stato anche recentemente confermato dalla Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14358 del 27 maggio 2019. Gli Ermellini, richiamando l’orientamento giurisprudenziale prevalente, hanno ribadito che l’assicurazione contro gli infortuni è un’assicurazione contro i danni e come tale è soggetta al “principio indennitario”, in base al quale l’indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito.

Purtroppo per il danneggiato, ove abbia già ottenuto un indennizzo dal proprio assicuratore, allorché agisca in giudizio per ottenere anche un risarcimento danni per le lesioni personali subite, tale risarcimento andrà diminuito dell’importo percepito dallo stesso da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni (ex multis Cass. n. 13233/2014; n. 7349/2015).

Trattandosi di un unico danno, l’indennità assicurativa configura un’ipotesi di “compensatio lucri cum damno” essendo la stessa in grado di soddisfare (in tutto o in parte) la perdita subita dal soggetto, al pari del ristoro cui mira il risarcimento da parte del terzo responsabile del fatto illecito.

Quanto sopra esposto è valido anche nel caso in cui, nella polizza infortuni, sia prevista la clausola di rinuncia alla surroga, in quanto, la stessa è prevista a favore del terzo danneggiante che non sarà soggetto all’azione di restituzione delle somme versate a titolo di indennizzo.

Tale indirizzo interpretativo favorisce indirettamente, rispetto al passato, le compagnie assicurative, che dovrebbero, a nostro parere, tenerne conto nella determinazione dei premi.

30 marzo 2021


Decreto Sostegni.

Pubblicato il 22 marzo 2021 in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 23.03 il cd. Decreto Sostegni (D.L. 41/2021), reperibile a questo link.

32 miliardi di euro stanziati con lo scopo di potenziare gli strumenti di contrasto alla diffusione del contagio da COVID-19 e di contenere l’impatto sociale ed economico delle misure di prevenzione adottate.

Cinque sono le principali aree di intervento:

  • sostegno alle imprese e agli operatori del terzo settore;
  • lavoro e contrasto alla povertà;
  • salute e sicurezza;
  • sostegno agli enti territoriali;
  • ulteriori interventi settoriali.

Di seguito alcune delle misure più rilevanti adottate.

1. L’art. 1 prevede un nuovo contributo a fondo perduto a favore degli operatori economici colpiti dall’emergenza epidemiologica Covid-19. In particolare, il contributo è riconosciuto ai soggetti titolari di partita IVA, residenti o stabiliti nel territorio nazionale, che svolgono attività d’impresa, arte o professione o producono reddito agrario. Il contributo spetta esclusivamente ai soggetti con compensi e ricavi relativi al periodo d’imposta 2019 non superiori a € 10 milioni a condizione che l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30% rispetto a quello del 2019. L’ammontare è determinato applicando una percentuale – a scaglione di ricavi e compensi – alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi 2020/2019. Il contributo è comunque riconosciuto per un importo minimo di € 1.000 per le persone fisiche e di € 2.000 per i soggetti giuridici, mentre non potrà in ogni caso superare € 150.000. Il contributo potrà essere erogato tramite bonifico bancario ovvero come credito d’imposta. Per l’ottenimento dovrà essere presentata un’istanza, esclusivamente in via telematica, all’Agenzia delle Entrate con l’indicazione della sussistenza dei requisiti richiesti.

2. È stato aumentato a 2,5 miliardi lo stanziamento del Fondo per l’esonero dai contributi previdenziali per autonomi e professionisti di cui alla legge di Bilancio 2021, la cui efficacia è tuttavia subordinata all’autorizzazione della Commissione europea.

3. Slitta dal 28 febbraio 2021 al 30 aprile 2021 il periodo sospensione del versamento delle somme derivanti da cartelle di pagamento, avvisi di addebito e avvisi di accertamento affidati all’Agente della riscossione. Slittano anche le scadenze di pagamento delle rate della rottamazione ter e del saldo e stralcio.

4. Viene differito al 30 aprile 2021 il termine finale della sospensione (ex art. 152 D. Rilancio) degli obblighi di accantonamento derivanti dai pignoramenti presso terzi effettuati su stipendi, salari, altre indennità relative al rapporto di lavoro o impiego, nonché a titolo di pensioni e trattamenti assimilati.

5. L’art. 4, c. 4, dispone la cancellazione automatica dei debiti di importo residuo fino a 5.000 euro (comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo sanzioni) risultanti da singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2010. Destinatari della misura sono i soggetti che nel 2019 hanno percepito reddito imponibile fino a € 30.000.

6. I titolari di partita IVA attiva che hanno subito nel 2020 una riduzione del 30% del volume d’affari possono altresì usufruire di una definizione agevolata delle somme dovute a seguito del controllo automatizzato delle dichiarazioni relative ai periodi di imposta 2017 e 2018.

7. Viene prorogata la possibilità per i datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza sanitaria di richiedere la cassa integrazione Covid-19.

8. Viene confermato il blocco generalizzato dei licenziamenti individuali e collettivi fino al 30 giugno/31 ottobre 2021. Blocco che non opera nei casi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa (compresa l’ipotesi di fallimento) e nei casi di accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali.

9. È rifinanziato, per le mensilità da marzo a maggio 2021, il reddito di emergenza (REM) ai nuclei familiari in condizioni di necessità economica in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da Covid-19.

Tra le ulteriori misure adottate troviamo: l’istituzione di un fondo per il turismo invernale, il riconoscimento di indennità ai lavoratori atipici, dello spettacolo, stagionali e sportivi, l’estensione delle tutele disposte a favore dei lavoratori fragili, l’istituzione di un fondo per la concessione di finanziamenti a favore delle grandi imprese in situazione di difficoltà economica nonché di un fondo destinato al ristoro delle perdite derivanti dall'annullamento, rinvio o ridimensionamento di fiere e congressi, l’esonero contributivo per le filiere agricole e alcune novità in materia di Naspi e di contratti a termine.

23 marzo 2021.


European Small Claims Procedure: uno strumento utile, ma poco conosciuto. La piattaforma online SCAN project potrebbe però rilanciarlo.

 

A molti è certamente capitato di avere un credito di modesto importo da recuperare, ovvero una controversia di modico valore da intentare, nei confronti di un soggetto estero. E con l’intensificarsi degli scambi internazionali, ciò accade sempre più di frequente.

Tuttavia, quando i valori in gioco sono limitati, il timore dei costi, delle lungaggini e delle difficoltà da affrontare scoraggia spesso il titolare del diritto, che rinuncia così a farlo valere.

Quantomeno all’interno dell’Unione Europea (con l’eccezione della sola Danimarca), esiste uno strumento che più facilitare la tutela dei diritti in tali casi.

Il legislatore europeo non è infatti rimasto insensibile al problema e, già nel 2007, ha emanato il Regolamento (CE) n. 861/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’ 11 luglio 2007, che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità, poi modificato dal Regolamento 2421 del 2015 Regolamento (UE) 2015/2421 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015. Il testo consolidato è disponibile a questo link.

Il procedimento si applica alle controversie transfrontaliere (definite come quelle in cui almeno una delle parti ha domicilio o residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello dell’organo giurisdizionale adito) in materia civile e commerciale, aventi valore non eccedente € 5.000,00 (oltre interessi e spese).

È utilizzabile per controversie pecuniarie e non, con alcune eccezioni stabilite dal Regolamento stesso (fra le quali stato e capacità delle persone, rapporti di famiglia e obbligazioni alimentari, successioni, procedure concorsuali, arbitrati, diritto del lavoro, ecc.). Sono inoltre escluse le materie fiscali, doganali o amministrative.

Tipicamente, la procedura può essere utilizzata per il recupero di crediti, per ottenere l’adempimento o far valere l’inadempimento di contratti, per ottenere risarcimento di danni, la consegna di beni o merci, ecc.

Proprio per facilitare la tutela transfrontaliera di diritti in casi di modico valore, il Regolamento prevede una procedura semplice, rapida e snella.

La domanda si introduce avanti all’organo giurisdizionale competente per territorio, compilando un modulo standard da inviare anche a mezzo posta, nella lingua dell’organo adito.

Il procedimento è a trattazione scritta e la fissazione di un’udienza è solo eventuale, nell’ipotesi in cui l’organo giudicante (anche su richiesta di una delle parti) non ritenesse di poter decidere sulla base delle sole allegazioni e prove scritte.

L’organo giurisdizionale adito risponde entro quattordici giorni dalla ricezione del modulo di domanda compilato. Domanda e replica sono notificate al convenuto, che deve replicare entro trenta giorni dalla notifica, sempre utilizzando modulistica standard.

Il tutto viene inviato all’attore, che nei successivi trenta giorni può rispondere alle eventuali domande riconvenzionali.

La sentenza è emessa entro trenta giorni dalla ricezione della replica del convenuto (o dell’attore in caso di domande riconvenzionali), salvo che il giudicante ritenga necessari ulteriori dettagli o l’assunzione di ulteriori prove, ovvero la fissazione di un’udienza. In tali casi, la sentenza è emessa entro trenta giorni dal compimento di tali ulteriori attività e notificata alle parti.

Sempre ai fini di snellimento della procedura, è previsto che eventuali dichiarazioni testimoniali possano essere rese in forma scritta e che la partecipazione ad eventuali possa avvenire mediante videoconferenza o tecnologie similari.

La sentenza così emessa è soggetta ad impugnazione solo se previsto dalla legislazione dello stato membro in cui è emessa, salvo alcuni casi limitati di riesame previsti dal Regolamento.

La sentenza è immediatamente esecutiva (anche se pendente il termine per impugnarla) ed è automaticamente riconosciuta ed eseguibile in tutti gli stati membri, senza necessità di exequatur.

L’assistenza di un legale è ammessa, ma non obbligatoria.

Tenuto conto del procedimento semplificato, anche i costi sono limitati. I costi processuali sono stabiliti dalla legge dei singoli stati membri (ad esempio, in Italia sono dovuti il contributo unificato e i diritti di copia). Le spese legali e processuali seguono la soccombenza, purché ritenute congrue e non sproporzionate dall’organo giudicante.

Come visto, il procedimento europeo per le controversie di modesta entità è di utilizzo piuttosto semplice, rapido e poco costoso e permette il recupero di crediti e la tutela di diritto in ambito civile e commerciale in casi di modico valore, nei quali il ricorso alla giustizia ordinaria rischierebbe di essere sconveniente o antieconomico.

È tuttavia uno strumento ancora poco conosciuto e molto poco utilizzato.

Si tratta inoltre di una procedura che si affianca non solo a quelle previste dalla normativa nazionale di ciascuno stato membro, ma anche ad altre previste dalla normativa comunitaria per specifiche esigenze, fra le quali, ad esempio:

  • - l’ingiunzione di pagamento europea, utilizzabile per il recupero di crediti transfrontalieri non contestati;
  • - il Titolo Esecutivo Europeo;
  • - il Regolamento in materia di obbligazioni alimentari;
  • - il Regolamento in materia di successioni;
  • - ecc.

Occorre dunque valutare attentamente, in ciascun caso, quale sia l’esigenza da tutelare, se la European Small Claims Procedure sia applicabile e costituisca la soluzione idonea, ovvero se vi siano altri strumenti più adatto o opportuni.

La novità più recente è senza dubbio la piattaforma small claims, realizzata da SCAN project (Small Claims Analysis Net, un consorzio di 8 università ed enti professionali, coordinato dall’Università di Napoli Federico II). Si tratta di una piattaforma online, recentemente attivata seppure ancora in versione beta, che si propone di utilizzare la tecnologia digitale per facilitare e incentivare l’accesso “online e “guidato”) al procedimento europeo per le controversie di modesta entità.

Studio Gallasso & Associati resta a disposizione della clientela per ogni ulteriore approfondimento, nonché per consigliare e assistere la clientela in tutte le procedure sopra descritte.

16 marzo 2021


Il fenomeno dello sharenting: i limiti della lecita utilizzazione dell’immagine di una persona.

 

In epoca di pandemia, connessa alla limitata circolazione e frequentazione delle persone ed alla conseguente digitalizzazione delle relazioni sociali, è stata rilevata una intensificazione del fenomeno dello sharenting, ovvero l’uso eccessivo dei social da parte dei genitori, che pubblicano continuamente foto dei figli, spesso in compagnia di terzi, e soprattutto di altri minori.

Trattasi di fenomeno decisamente pericoloso, anche da un punto di vista legale, per le conseguenze che ne possono derivare.

Il diritto all’immagine, pur non essendo espressamente contemplato dalla nostra Costituzione, rientra tra i diritti della personalità.

L’immagine di una persona è espressamente tutelata dall’art. 10 del cod. civ. e dagli art. 96 e 97 della legge 633/1941 sul diritto d’autore.

Presupposto indefettibile per l’esposizione, la riproduzione o addirittura la messa in commercio dell’immagine di una persona (di cui siano riconoscibili le fattezze) è il relativo consenso. Nel caso di minori e/o incapaci, il consenso viene prestato dal rappresentante legale, ed è legittimo solo a condizione che vi sia una qualche utilità per l’incapace e non ne determini pregiudizio.

Per unanime indirizzo dottrinale e giurisprudenziale il consenso può essere dato in qualsiasi forma, anche in modo tacito, implicito o per fatto concludente. L’art. 4 n. 3 del d.lgs. n. 196 del 2003 in tema di trattamento di dati personali, stabilisce che il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente e specificatamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, salvo alcune finalità giornalistiche, sempre però con modalità che garantiscano il rispetto dei dritti e delle libertà fondamentali.

Laddove il consenso sia tacito od implicito va valutato con estremo rigore, soprattutto se l’immagine possa in qualche misura ledere l’onore e la reputazione della persona.

L’art. 97 comma 1 della legge sul diritto di autore elenca alcune ipotesi tassative nelle quali l’utilizzo dell’immagine prescinde dal consenso (notorietà della persona, scopi scientifici, didattici, di giustizia ovvero consessi ad eventi pubblici), sempre con i limiti citati.

E’ quindi residuale e ben definita l’ipotesi in cui l’utilizzo dell’immagine di una persona può prescindere dal relativo consenso, e la tendenza giurisprudenziale è nel senso di darne una lettura sempre più restrittiva, soprattutto laddove si tratti di minori (anche in applicazione dell’art. 16 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo).

Con una recente pronuncia (ordinanza n. 4477 depositata il 19.02.2021) la Corte di Cassazione ha chiarito che il diritto alla riservatezza del minore deve essere considerato preminente anche rispetto al diritto di cronaca (se pur anch’esso costituzionalmente garantito), in virtù del principio fondamentale che le sembianze di una persona non possono essere esposte, riprodotte o messe in commercio contro la sua volontà, essendo l’immagine una proiezione concreta della personalità nei rapporti con l’esterno.

La conseguenza è che chi espone e/o riproduce l’immagine di altri, senza il relativo consenso, può essere destinatario di un’azione giudiziaria anche con condanna risarcitoria.

Il nostro studio è sempre a disposizione per chiarimenti e assistenza su casi specifici.

9 marzo 2021.


Decreto MilleProroghe: pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge di conversione.

Nella giornata di ieri, 01 marzo 2021, è stata pubblicata la Legge 26 febbraio 2021 n. 21 di conversione del c.d. Decreto Milleproroghe (d.l. 183/2020).

Il provvedimento ha disposto la proroga di diversi termini legislativi e il differimento della scadenza per l’accesso a diverse misure introdotte per far fronte all’emergenza sanitaria da Covid 19, coinvolgendo moltissime materie.

Tra i principali ambiti di intervento vi è certamente quello del lavoro e della previdenza, nel quale è stato disposto il rinvio al 31 marzo 2021 per le richieste di accesso alla cassa integrazione Covid. Ma non solo. Sono state rinnovate, infatti, le agevolazioni riguardanti la stabilizzazione della detrazione spettante ai percettori di reddito di lavoro dipendente e di alcuni redditi assimilati. Inoltre, è stata differita al 30 aprile 2021 la possibilità per i datori di lavoro di ricorrere allo smart working semplificato.

Nel settore dei trasporti è stato disposto il differimento al 31 dicembre 2021 del termine per le verifiche periodiche della strumentazione metrica delle imprese di autoriparazione e revisione dei veicoli, nonché il differimento di sei mesi dei termini per lo svolgimento della prova di teoria nell’esame per la patente di guida.

Sono state poi disposte proroghe alle misure introdotte in materia di Giustizia, con riguardo in particolare all’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili e dei pignoramenti degli immobili destinati ad abitazione principale del debitore il termine della sospensione è stato posticipato al 30 giugno 2021. E’ stato posticipato al 31 dicembre 2021, invece, il termine per la presentazione delle istanze di indennizzo per le vittime dei reati intenzionali violenti. A ciò si aggiunge la proroga al 30 aprile 2021 delle disposizioni introdotte in ambito penitenziario con riguardo all’ammissione al regime di semilibertà, alla concessione di permessi premio e alla esecuzione domiciliare della pena detentiva non superiore a 18 mesi.

In materia di Energia è stata disposta la proroga al 1° gennaio 2023 del termine di cessazione del regime di tutela del prezzo per i clienti finali di piccole dimensioni nel mercato del gas, nonché del termine di cessazione dello stesso regime nel mercato dell'energia elettrica per le micro imprese e per i clienti domestici.

Anche la possibilità di usufruire del c.d. “bonus vacanze” è stata oggetto di proroga sino al 31 dicembre 2021.

Sempre fino 31 dicembre 2021 è stato disposto il periodo di sospensione delle scadenze relative ai benefici connessi all’acquisto dell’abitazione principale.

Di seguito il link in cui leggere il testo completo della Legge di conversione: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/03/01/21G00025/sg

2 marzo 2021.


Le spese di ristrutturazione della casa coniugale.

 

Allorché un coniuge provveda a proprie spese ad eseguire le opere di ristrutturazione della casa coniugale – di proprietà esclusiva dell’altro ed in godimento del nucleo familiare – avrà diritto al relativo rimborso, in caso di separazione o divorzio.

La giurisprudenza (ex multis Cass. n. 5866 del 1995, n. 13259 del 2009 e n. 20207 del 2017) ha ritenuto applicabile al caso di specie il principio generale dettato dall’art. 1150 c.c. in materia di riparazioni e miglioramenti effettuati dal possessore. Dette opere, qualora esistenti al tempo della restituzione del bene, danno diritto al rimborso delle relative spese sostenute dall’utilizzatore in misura pari all’aumento di valore conseguito dal bene.

Ratio della conclusione giurisprudenziale, in materia di diritto di famiglia, è di evitare che il contributo economico apportato dal solo possessore faccia conseguire al proprietario esclusivo un ingiustificato arricchimento, superando i limiti dell’obbligo contributivo coniugale.

L’art. 143 c.c. pone difatti in capo ai coniugi l’obbligo di contribuzione, alla luce del quale non è possibile richiedere la restituzione dei regali o delle piccole donazioni; diverso, però, è il caso delle spese che per la loro entità economica travalicano il normale dovere di partecipazione. Ad esempio: le risorse utilizzate per il restauro della casa coniugale, rispetto al tenore di vita di una persona avente un reddito medio, vanno ben oltre il normale apporto per le spese ordinarie di convivenza, e, dunque, devono essere rimborsate.

A ben vedere, quindi, per stabilire se il valore di un contributo va oltre l’adempimento di una semplice obbligazione “morale” e deve essere rimborsato ai sensi dell’art. 1150, terzo comma, c.c. è necessario verificare le condizioni sociali e patrimoniali di chi effettua tale conferimento.

23 febbraio 2021.


Trattamento di fine rapporto e divorzio.

In caso di divorzio, una quota della liquidazione maturata dal lavoratore al termine del rapporto di lavoro spetta all’ex coniuge.

La materia è disciplinata dall’art. 12 bis, L.898/1970 (Legge sul Divorzio).

Ratio della norma è evidentemente quella di realizzare una forma di partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato.

Ai fini dell’applicazione di tale disciplina, l’indennità di fine rapporto comprende, secondo la giurisprudenza maggioritaria, tutti i trattamenti di fine rapporto – derivanti sia da lavoro subordinato, sia da lavoro parasubordinato – comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro.

Perché al coniuge divorziato sia riconosciuto il diritto a percepire una quota del TFR liquidato in favore dell’altro, devono ricorrere due presupposti:

  • il primo deve già percepire un assegno divorzile, versato con cadenza periodica (è pertanto escluso il coniuge che ha ottenuto un assegno divorzile una tantum);
  • lo stesso non deve essere passato a nuove nozze.

Soddisfatte dette condizioni, l’ex coniuge avrà diritto ad una percentuale di TFR parti al 40% della liquidazione maturata dal lavoratore, ma limitatamente agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio (compreso il periodo per cui è perdurata la separazione personale). Pertanto, le liquidazioni relative ad impieghi instaurati dopo il divorzio spetteranno in via esclusiva al lavoratore, così come le quote del TFR maturate dopo il divorzio.

Ai fini del computo della quota si dovrà procedere, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza, a dividere l’indennità complessiva percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando poi il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40% su tale importo.

Dal punto di vista temporale, è la domanda di divorzio il momento a partire dal quale sorge il diritto alla quota di indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, diritto che sarà tuttavia esigibile solo dal momento in cui la sentenza che riconosce l’assegno di divorzio diventa definitiva, costituendone un presupposto.

Poiché, quindi, il diritto in parola diviene attuale e, dunque, azionabile in giudizio, nel momento in cui sorge, con la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto al relativo trattamento, se la liquidazione matura:

  • prima del ricorso introduttivo della causa di divorzio, il coniuge non ha diritto di parteciparvi;
  • dopo il ricorso (ma prima della relativa sentenza), la giurisprudenza più recente riconosce la possibilità di cumulare la domanda di attribuzione della quota di TFR con quella di assegno divorzile, il cui riconoscimento tuttavia condiziona l’accoglimento della prima;
  • dopo la sentenza di divorzio, il coniuge interessato alla quota dovrà presentare apposita istanza al Tribunale, affinché – verificata la sussistenza delle due condizioni richieste dalla legge – il suo diritto venga accertato e riconosciuto. La domanda può eventualmente essere presentata anche in sede di modifica delle condizioni di divorzio.

Interessante spunto di riflessione è offerto da una sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino (sez. lav., 29.10.2009), che, nel silenzio della legge, ha aperto alla possibilità per l’ex coniuge di agire direttamente nei confronti del terzo erogatore dell’indennità.

16 febbraio 2021.


Bonus locazioni 2021: contributo fino a 1200 euro per i proprietari che riducano il canone di locazione.

La legge di bilancio 2021 (l. 30.12.2020 n. 178, art. 1, commi da 381 a 384), riprendendo anche per il corrente anno una delle misure agevolative del decreto legge n. 137/2020 (c.d. “Decreto Ristori”), prevede un contributo a fondo perduto a favore dei proprietari di immobili ad uso abitativo, che concordino con il conduttore una riduzione del canone rispetto a quello stabilito nel contratto di locazione.

La misura si applica solamente alle locazioni abitative di immobili situati in uno dei comuni ad alta tensione abitativa e per immobili adibiti ad abitazione principale del conduttore.

L’importo del contributo è pari al 50% della riduzione accordata, con un massimo di € 1.200,00 annui. Il limite è da intendersi per locatore e non per contratto.

Ulteriori requisiti per beneficiare del contributo sono la regolare registrazione del contratto di locazione e dell’atto contenente la rinegoziazione del canone sia regolarmente registrato (quest’ultima è peraltro esente dalle imposte di registro e di bollo) e la tempestiva comunicazione all’Agenzia delle Entrate, in via telematica, della rinegoziazione del canone di locazione e di ogni altra informazione utile ai fini dell'erogazione del contributo.

Per la copertura del bonus nell’anno 2021 è stata prevista una dotazione di 50 milioni di euro (fino ad esaurimento).

Si attende, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di bilancio (quindi entro il 2 marzo 2021), un apposito provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, che dovrà individuare specificamente le modalità di attuazione, compresi i criteri di ripartizione proporzionale della dotazione disponibile e le modalità di monitoraggio delle comunicazioni.

Il contributo si aggiunge al vantaggio fiscale derivante dalla riduzione (registrata) del canone di locazione. Inoltre, il Decreto Ristori dispone che i contributi e le indennità di qualsiasi natura erogati in via eccezionale a seguito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte.

9 febbraio 2020


Voucher Turistici.

 

Molti acquirenti di pacchetti turistici si ritrovano con voucher emessi dai tour operator ai sensi dell’art. 88 bis del D.L. n. 18/2020 (Decreto Cura Italia) della durata di 365 giorni, ma con l’incertezza circa la possibilità del relativo utilizzo stante il perdurare degli effetti della pandemia.

L’art. 182 comma 3 bis del D.L. n. 34/2020 (Decreto Rilancio) ha parzialmente novellato il citato articolo, prevedendo, tra le altre, l’estensione della validità dei voucher fino a 18 mesi.

Molti consumatori, spaventati dal perdurare della situazione emergenziale, vorrebbero riscuotere detti voucher, chiedendo la restituzione dell’importo versato.

Ciò purtroppo non è attualmente possibile, in quanto la citata legislazione impone il decorso dei 18 mesi dall’emissione per la possibilità di rimborsi, nel caso in cui il voucher non venga utilizzato.

Al fine di estendere la possibilità di utilizzo, si è previsto che il voucher possa essere utilizzato anche per servizi resi da altro operatore appartenente al medesimo gruppo societario, e per la fruizione di servizi successivi al termine di validità, sempre che la prenotazione sia stata effettuata entro il termine di 18 mesi.

Se il tour operator è fallito o insolvente, è stato istituito un fondo volto ad assicurare l’indennizzo dei consumatori titolari di voucher, sino alla concorrenza degli importi stanziati (con il rischio, pertanto, che qualcuno rimanga insoddisfatto).

Per i titolari di voucher l’unica possibilità di riscatto immediato rimane connessa all’esistenza di una copertura assicurativa valida, che potrebbe però prevedere una penale e quindi non l’integrale rimborso.

2 febbraio 2021.


Pena illegittima? Il Giudice dell'Esecuzione non può intervenire.

Il nostro ordinamento penale prevede tre gradi di giudizio. La sentenza di condanna di primo grado può essere impugnata in Appello, ove il Collegio riesaminerà le questioni devolute al suo giudizio anche nel merito, istaurando un giudizio di cognizione pieno.

La sentenza di Appello può essere oggetto anche di una successiva impugnazione avanti la Corte di Cassazione, che non esaminerà nel merito la pronuncia, ma potrà esaminare solo questioni di diritto.

L’impugnazione di una sentenza definitiva passata in giudicato avanti al Giudice dell’Esecuzione rappresenta un mezzo di impugnazione straordinario, che consente in casi eccezionali di aggredire il giudicato, al fine di porre rimedio a pronunce determinate da un giudizio erroneo.

Nel caso recentemente deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2706 del 22 gennaio 2021, il ricorrente era stato condannato in primo grado ad una pena ritenuta illegale, poiché era stata aumentata nella misura di 2/3 a causa della recidiva reiterata, in violazione dell’art. 63, comma 4 c.p..

La questione, tuttavia, non è stata devoluta al giudice dell’Appello, ma divenuta definitiva la sentenza di primo grado è stata oggetto di impugnazione straordinaria avanti il Giudice dell’Esecuzione che ha ritenuto inammissibile il ricorso.

Il ricorrente ha dunque proposto il ricorso avanti la Corte di Cassazione, che ha chiarito che l’illegittimità della pena inflitta mediante sentenza irrevocabile «può essere rilevata in sede esecutiva soltanto quando la sanzione irrogata non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedere il limite legale, ma non invece quando risulti errato il calcolo attraverso il quale la pena è stata determinata […], trattandosi in tal caso di un errore sindacabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza».

Nel caso di specie vi è stato un errore di diritto che tuttavia non ha comportato l’applicazione di una pena illegale in senso stretto, ossia una pena contraria all’ordinamento giuridico, bensì un mero errore di calcolo che poteva essere corretto, ma solo attraverso i normali mezzi di impugnazione in un giudizio di Cognizione.

La Corte di Cassazione ha dichiarato, dunque, inammissibile il ricorso pronunciando il seguente principio di diritto: «Al giudice dell’esecuzione è preclusa la rideterminazione della pena inflitta nel giudizio di cognizione ove venga dedotto un profilo di illegalità, per violazione dell’art. 63, comma quarto, c.p., che non abbia determinato una sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero eccedente il limite legale per specie o per quantità».

 26 gennaio 2021.


È possibile evitare l’azione revocatoria fallimentare?

La revocatoria fallimentare è lo strumento introdotto dal legislatore con lo scopo di salvaguardare il patrimonio del fallito, rendendo inefficaci gli atti posti in essere dal debitore nel periodo antecedente (sei mesi o un anno) alla dichiarazione di fallimento, in violazione della par condicio creditorum.

Nell’eventualità in cui, però, nel periodo predetto, il debitore decidesse di saldare alcuni dei suoi debiti quale negozio giuridico dovrebbe utilizzare per garantire ai suoi creditori l’esclusione dall’azione revocatoria fallimentare? La risposta è l’espromissione, da intendersi come l’atto con cui il terzo (c.d. espromittente) si obbliga a pagare nei confronti del creditore (c.d. espromissario) quanto dovuto dal debitore (c.d. espromesso). Come chiarito sul punto dalla recente giurisprudenza – Tribunale di Bologna, sentenza n. 53/2018 – tale istituto è soggetto all’azione revocatoria fallimentare solo nella forma di “datio in solutum”, ossia, allorché la prestazione originariamente dovuta venga sostituita con una di diversa natura (anche di valore eguale o superiore).

19 gennaio 2021.


Un nuovo servizio per far fronte a nuove esigenze.

 

Gentili Clienti,

questi mesi di emergenza hanno modificato sostanzialmente la routine a cui eravamo abituati.

Consapevoli dell’impatto socioeconomico che questa nuova situazione ha comportato, abbiamo deciso di adottare un ruolo proattivo, restando a fianco della clientela e supportandola in tutti gli aspetti di questa fase delicata.

Forti delle competenze del nostro team, siamo ad annunciare che il nostro studio legale offre ora anche il servizio di review giuslavoristica e gap analysis, al fine di aiutare i datori di lavoro ad una efficiente riorganizzazione del personale, tra assunzioni, modifiche dei contratti di lavoro, smart working, cessazioni e licenziamenti.

Abbiamo deciso, dunque, di renderci disponibili per una consulenza preventiva, nel rispetto delle esigenze sia attuali che future, per aiutare i datori di lavoro a conoscere la situazione in essere con riferimento alle risorse umane, nonché di comprendere i punti di forza e quelli di debolezza, adottando le strategie più opportune.

Nel concreto, diamo la possibilità di non farsi trovare impreparati, analizzando e sistemando eventuali situazioni che, in un prossimo futuro, potrebbero trasformarsi in contenziosi onerosi o difficilmente gestibili.

COME FUNZIONA

1. Studio della situazione attuale - incontro con i professionisti: il primo passo è l’analisi delle esigenze e l’esecuzione di uno screening dello stato di fatto

2. Verifica dettagliata delle posizioni coinvolte: il nostro team, una volta individuate le risorse coinvolte, valuterà nel dettaglio i rapporti di lavoro in oggetto.

3. Revisione e strategie di gestione: in base alle esigenze, saremo in grado di offrire un ventaglio di soluzioni al fine di ottenere il miglior risultato.

QUALI SONO I VANTAGGI

1. Verificare i punti deboli ed i punti di forza dei rapporti di lavoro in essere.

2. Predisporre una strategia al fine di sanare eventuali posizioni critiche.

3. Riorganizzare in modo efficiente il personale.

4. Avere una consulenza legale giuslavoristica per la gestione del personale.

5. Limitare il rischio di contenziosi di lavoro.

Vi invitiamo a contattarci senza indugio per ogni chiarimento e per pianificare un incontro.

Studio Gallasso & Associati

12 gennaio 2021.


L’efficacia esecutiva del mutuo cd. condizionato.

Ai sensi dell’art. 474 c.p.c. il titolo esecutivo è il necessario presupposto per conseguire dal debitore l'esatto adempimento dell'obbligazione. Il relativo diritto dev'essere certo, cioè incontroverso nella sua esistenza, liquido, ossia di ammontare determinato, ed esigibile, in quanto non sussistano ostacoli, come la condizione o il termine, alla sua riscossione. Solo il concorso di tali requisiti rende il credito suscettibile di esecuzione forzata.

Il mutuo è, ai sensi dell’art. 1813 c.c., contratto reale che, in quanto tale, si perfeziona con la datio rei, e non per l’effetto del mero consenso espresso dalle parti. Solo al momento della consegna sorge l’obbligo di rimborso in capo al mutuatario e il corrispondente diritto di credito alla restituzione del mutuante.

Per accertare se il negozio in parola costituisca titolo esecutivo è quindi necessario verificare, secondo la consolidata giurisprudenza, se l’atto contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata.

Pacifico ormai che per consegna non possa solo intendersi la traditio fisica, ben potendo avvenire l’erogazione della somma anche “virtualmente” (ad esempio mediante accredito in conto corrente), purché, naturalmente, il mutuante crei, con l’uscita delle somme dal proprio patrimonio, un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, il quale deve – in altre parole – poter compiere atti di autonomia privata, dispositivi degli importi ricevuti (si vedano, tra le molte, le seguenti sentenze di merito: Trib. Roma, 13.05.2015, Trib. Pescara, 12.06.2017, Trib. Cassino, 25.11.2018).

Quando tale libertà manca, se pure per un periodo limitato di tempo, non può invece dirsi raggiunta la disponibilità giuridica della somma mutuata: il contratto di mutuo si perfezionerà quindi solo in un momento successivo rispetto alla sua sottoscrizione.

Tale ipotesi si verifica, ad esempio, nel caso di mutuo condizionato. Rientrano in questa fattispecie quei contratti nei quali la somma mutuata – pur essendo espressamente dichiarata come erogata – resta sostanzialmente indisponibile presso la banca (in deposito cauzionale ovvero anche tramite la costituzione di pegno irregolare) sino al verificarsi di condizioni future e incerte, rimesse alla volontà della parte mutuataria, posticipando necessariamente ad un momento altrettanto futuro e incerto il perfezionamento negoziale.

Oltretutto, la costituzione dei vincoli sopra citati soddisfa chiaramente l’esclusivo interesse della parte mutuante a conservare la propria disponibilità della somma sino all’adempimento di tutte le condizioni gravanti sul mutuatario: in mancanza di avveramento di tutte le condizioni elencate l’istituto bancario può risolvere unilateralmente il contratto e trattenere definitivamente presso di sé le somme fittiziamente erogate, anche senza la cooperazione del mutuatario.

Il contratto di mutuo condizionato, in conclusione, pur recando la forma dell’atto pubblico, è inidoneo ad assumere l’efficacia di titolo esecutivo, giacché non documenta un credito dotato dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità.

12 novembre 2020.


Contenziosi in materia di risarcimento dei danni derivanti da sinistri stradali

Il Codice delle Assicurazioni garantisce agli assicurati l’integrale risarcimento delle spese sostenute per la riparazione dei veicoli danneggiati, anche qualora si avvalgano dell’attività professionale di carrozzieri di fiducia, e al contempo riconosce alle imprese di riparazione il diritto a vedersi corrispondere dalle compagnie assicurative i costi sostenuti per le riparazioni.

Frequentemente accade che l’ammontare dei danni quantificato dai carrozzieri superi quello dei tecnici delle imprese assicuratrici. In questi casi sarà d’interesse delle imprese di riparazione avviere un’azione per ottenere il risarcimento delle maggiori somme.

A favore di tali condotte, la giurisprudenza di merito (sentenze n. 38/2017 GdP Novara e n. 1817/2017 GdP Torino) ha avallato un nuovo orientamento a tutela dei carrozzieri che abbiano applicato costi orari della manodopera nel rispetto dei mercuriali. Nei suddetti casi, infatti, non sussistono valide ragioni a fondamento delle contestazioni alla luce anche del fatto che, normalmente, le stime dei tecnici assicurativi vengono elaborate da programmi informatici, che non tengono conto delle problematiche che possono emergere nello svolgimento dei lavori.

5 novembre 2020.


Intermediazione finanziaria e competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa.

Secondo il costante orientamento della Suprema Corte, il discrimen, ai fini dell’individuazione della competenza in capo alle sezioni specializzate, è rappresentato dal legame diretto della controversia con i rapporti societari e le partecipazioni sociali.

Non rientra nel novero di quelle devolute al tribunale dell’impresa, quindi, la controversia vertente sull’azione di invalidità, e conseguente risarcimento del danno, di un contratto di intermediazione finanziaria e degli ordini di acquisto delle azioni di un istituto di credito, per non aver quest’ultimo assolto ai propri obblighi informativi.

Ha fatto luce sulla questione l’ordinanza n. 22340/20 del 15.10.2020: l’interpretazione estensiva dell’art. 3 del d.lgs. 168/2003, che attribuisce alla competenza delle sezioni specializzate le controversie relative ai rapporti societari e al trasferimento delle partecipazioni sociali “o ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti”, non può comunque arrivare ad includere pure le controversie di natura bancaria – come quella oggetto di decisione.

Nella determinazione della competenza del giudice non ha rilievo la motivazione dell’investimento azionario, bensì la causa negoziale prospettata nell’atto di citazione introduttivo, ossia la ragione della domanda attorea. Nel caso di specie, la causa petendi non investiva affatto il rapporto del socio con la società, i suoi organi o gli altri soci, ma quello tra risparmiatore e istituto bancario, per il mancato rispetto delle norme del T.U.F.. La competenza è dunque del tribunale ordinario.

Rileva altresì la Cassazione che l’opposto orientamento contraddirebbe la scelta di specializzazione perseguita dal legislatore del 2012, che ha volutamente escluso dalla cognizione del tribunale d’impresa le vertenze in materia di intermediazione mobiliare.

20 ottobre 2020.


DAC 6: iniziato il conto alla rovescia!

Più controlli e nuove segnalazioni sulle operazioni che prevedono l’utilizzo di strutture giuridiche o societarie estere ovvero il coinvolgimento di soggetti aventi residenza in giurisdizioni straniere.

Lo prevede il decreto legislativo 100/2020 con il quale il Governo italiano, dando attuazione alla direttiva UE n. 2018/822 (più nota come DAC 6), modifica le norme e le procedure relative allo scambio automatico obbligatorio di informazioni sui cosiddetti meccanismi di pianificazione fiscale aggressiva e di occultamento degli attivi aventi la finalità ultima di ridurre le imposte esigibili ovvero di trasferire gli utili imponibili verso Stati aventi un regime tributario più favorevole rispetto a quello italiano.

L’obbligo di segnalare all’Agenzia delle Entrate l’eventuale utilizzo, anche solo tentato, di tali meccanismi da parte dei loro clienti ricade su banche, società finanziarie, società fiduciarie ed anche su avvocati, commercialisti e, più in generale, sui professionisti attivi nella fornitura di servizi in ambito legale, fiscale e di consulenza,

Il nuovo obbligo opererà dall’1 gennaio prossimo ma si attendono ancora le disposizioni attuative e le relative istruzioni operative di Ministero dell’Economia e dell’Agenzia delle Entrate.

15 ottobre 2020.


Verso il sequestro conservativo dei conti correnti bancari a livello europeo.

 

Il creditore potrà bloccare i conti correnti del debitore in tutta l’Unione Europea.

Lo prevedono due regolamenti europei: il regolamento n. 655/2014 ed il regolamento di esecuzione n. 2016/1823.

Per effetto dei citati provvedimenti, in corso di recepimento anche nel nostro Paese, diventerà quindi più facile e veloce il recupero dei crediti a livello UE.

La procedura troverà applicazione ai crediti transfrontalieri in materia civile e commerciale e cioè quando il conto bancario è detenuto in uno Stato diverso da quello in cui il creditore è domiciliato o in cui sussiste la giurisdizione del giudice adito.

Non tutte le materie però ricadono nella nuova procedura: quella fiscale per esempio non rientrerà nella nuova normativa.

La procedura avrà il suo fulcro in un’ordinanza di sequestro conservativo per ottenere la quale il creditore dovrà dimostrare che sussiste un interesse concreto; il creditore che non dovesse disporre poi delle informazioni sul conto bancario del debitore potrà, in determinate condizioni, richiedere all’autorità giudiziaria di ottenere le informazioni preposte nello Stato membro dell’esecuzione.

Una più ampia e completa disamina potrà essere fatta soltanto dopo che il Governo italiano avrà emanato il decreto legislativo di recepimento della normativa europea.

13 ottobre 2020.


Carta identità e patente scaduta? Più tempo per rinnovarle.

 

La validità dei documenti di riconoscimento e identità scaduti è stata ulteriormente prorogata al 31 dicembre 2020.

Rimane però limitata alla data di scadenza del documento la validità ai fini dell’espatrio.

Lo ha previsto il Ministero dell’Interno con la circolare n. 8 del 27 luglio scorso attuativa di quanto previsto dal decreto-legge 19 maggio 2020, n.34, convertito con la legge n.77/2020.

Lo stesso Ministero, con la circolare n. 9 del 28 luglio 2020, ha inoltre previsto la possibilità di rinnovare sia le carte di identità cartacee che le carte di identità elettroniche (conformi al decreto del ministro dell'Interno 8 novembre 2007) prima del centottantesimo giorno precedente la scadenza.

Obiettivo della citata disposizione, emanata in applicazione di quanto previsto dal decreto-legge 16 luglio 2020, n.76, è quello di favorire l'accesso dei cittadini ai servizi in rete delle amministrazioni pubbliche.

Prorogata anche la validità della patente di guida.

A seguito della delibera del Consiglio dei Ministri del 29 luglio 2020 con la quale è stato prorogato lo stato di emergenza fino al 15 ottobre 2020, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con una circolare del 13 agosto scorso, ha dettato nuove disposizioni riguardanti le scadenze dei documenti di guida.

Per le patenti di guida rilasciate in Italia è stata prevista una proroga di validità sino a fine anno ovvero sino al 31 dicembre 2020 se la scadenza è avvenuta o prevista tra il 31 gennaio ed il 30 dicembre 2020. Stessa regola è stata prevista per la validità di foglio rosa e permessi provvisori. 

Per maggiori informazioni consultare i siti del Ministero dell’Interno (www.interno.gov.it) e quello del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (www.mit.gov.it).

9 ottobre 2020.


Intermediari. Più attenzione nell’identificare il cliente.

 

L’intermediario è responsabile dei danni subiti dal soggetto che si è visto, a sua insaputa, intestatario di un conto corrente.

Lo ha previsto l’Arbitro Bancario Finanziario, collegio di Milano, nella decisione n. 10885 del 17 giugno 2020.

Il ricorso ha ad oggetto l’accertamento della responsabilità di due intermediari per non aver correttamente identificato il cliente e aver consentito l’apertura di due distinti rapporti di conto corrente da parte di terzi utilizzando illegittimamente l’identità della parte ricorrente.

Sulla base della ricostruzione dei fatti esposta nel provvedimento dell’ABF tale responsabilità sarebbe così attribuibile.

Il primo intermediario, a fronte di un rapporto di conto corrente aperto on line, quindi senza la presenza fisica del cliente, non risulta essersi attenuto agli obblighi rafforzati di adeguata verifica previsti dall’articolo 28 del d.lgs. 231/07 per il caso in cui il cliente non sia fisicamente presente e ciò anche in ragione del fatto che la sottoscrizione apposta (a distanza) sul contratto di apertura del conto corrente non risulta in alcun modo leggibile non rendendo possibile una sua comparazione con la firma apposta sul documento di identità utilizzato dall’intermediario per identificare il cliente.

Il secondo intermediario, avvalendosi della possibilità di identificare il cliente persona fisica tramite bonifico esterno, vale a dire ricorrendo ad un bonifico in entrata proveniente da un conto corrente intestato al cliente, non risulta però essersi pienamente conformato alla normativa di settore (cfr. articolo 28 d.lgs. 231/07 e provv. Banca d’Italia del 3 aprile 2013 in materia di adeguata verifica della clientela) laddove, da un lato, il bonifico non è stato effettuato a valere su un conto per il quale il cliente è stato identificato di persona atteso che il rapporto di conto corrente aperto presso il primo intermediario resistente a tal fine utilizzato è stato, come visto sopra, aperto on-line e non di persona (come invece prevede la normativa) e, dall’altro lato, non ha fornito evidenza dell’individuazione dell’apposito codice identificativo assegnato al cliente ai fini dell’identificazione da parte di terzi, così come prevede invece il sopra citato provvedimento di Banca d’Italia. La citata negligenza risulta ancora maggiore, secondo l’ABF, se si considera il fatto che nel contratto stipulato con il secondo intermediario è stato indicato un indirizzo di residenza del cliente diverso rispetto a quello indicato nei documenti di identità allegati; questa circostanza avrebbe dovuto indurre il secondo intermediario ad effettuare una ulteriore e più puntuale verifica dei dati.

A giudizio dell’Arbitro Bancario Finanziario gli intermediari non avrebbero quindi diligentemente adempiuto agli obblighi di adeguata verifica della clientela e devono pertanto ritenersi responsabili dei fatti da cui origina il pregiudizio lamentato dal ricorrente, vale a dire l’apertura di rapporti di conto corrente a suo nome da parte di terzi al fine di farvi confluire somme provenienti da reato.

Per una completa disamina della decisione si rinvia al sito dell’ABF www.arbitrobancariofinanziario.it

6 ottobre 2020.


Bitcoin e criptovalute. Attenzione al rischio riciclaggio.

Il rapido e (pare) inesorabile diffondersi delle valute virtuali richiede una altrettanto adeguata risposta da parte delle Istituzioni pubbliche e private soprattutto orientata ad evitare che i nuovi strumenti possano essere utilizzati a fini illeciti, viste le loro intrinseche connotazioni di anonimato e carenza, se non addirittura totale mancanza (almeno in alcuni Stati), di assetti regolatori in materia di antiriciclaggio.

Nel 2019 il GAFI, organizzazione mondiale che detta principi per la lotta al riciclaggio, ha emanato standards globali vincolanti per gli Stati (tra i quali l’Italia) per prevenire l’uso improprio di risorse virtuali a fini di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo; il nostro Paese ha fatto propri i citati standard sin da 2019 con un documento del Ministero dell’Economia e delle Finanze denominato “Linee guida per un approccio ai virtual asset e ai prestatori di servizi in materia di virtual asset basato sul rischio”.

Pochi giorni fa, il 14 settembre 2020, il GAFI ha pubblicato il Virtual Assets Red Flag Indicators of Money Laundering and Terrorist Financing con cui, per certi versi, integra le sopra citate Linee Guida del 2019 ribadendo che l’utilizzo di nuove tecnologie per trasferire rapidamente valori in tutto il mondo, oltre ad avere potenziali vantaggi dati dalla rapidità ed economicità dei pagamenti, può essere utile strumento a disposizione della criminalità

Con il suo nuovo Report il GAFI si propone di aiutare le autorità nazionali a rilevare l’utilizzo di beni virtuali per la commissione di attività criminali. Come riportato sul sito della rivista antiriciclaggio e compliance, il report è basato su oltre 100 casi di studio raccolti dai membri del GAFI ed ha l’obiettivo di evidenziare i principali indicatori di anomalia che potrebbero suggerire un comportamento criminale.

Per il mondo delle banche, ma anche per quello dei professionisti, le sopra citate linee guida (tutte facilmente reperibili su internet) possono essere un utile strumento di lavoro allorchè debba occuparsi, anche solo offrendo una consulenza legale, di criptovalute.

1 ottobre 2020.


Opposizione a decreto ingiuntivo.

Al creditore opposto l’onere di avviare la procedura di mediazione.

 

Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell’articolo 5, comm1-bis, del d.lgs. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione unite civili, con la sentenza 19596 depositata il 18 settembre scorso.

Viene così sovvertito il precedente orientamento della stessa Corte contenuta nella sentenza 24629 del 2015 con la quale era invece stato previsto che nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione gravasse sulla parte opponente.

La suprema Corte pone a fondamento della nuova sentenza (e del nuovo orientamento) argomenti di carattere testuale, logico e sistematico.

Da un punto di vista testuale l’articolo 4, comma 2, l’art. 5, comma 1bis e l’art. 5, comma 6 del d.lgs. 28 del 2010 sono univoci nel senso che l’onere di attivarsi per promuovere la mediazione debba essere posto a carico del creditore, che è appunto l’opposto.

Sul piano logico, la Corte sottolinea da un lato che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è l’opposto ad avere la qualità di creditore in senso sostanziale e dall’altro che poiché l’opponente si è attivato promuovendo il giudizio di opposizione – unico rimedio processuale a lui riconosciuto – ricollegare alla sua inerzia nel promuovere il procedimento di mediazione un effetto identico (alla non opposizione al decreto) appare un’evidente forzatura.

Esistono poi ragioni di tipo costituzionale ad avviso della Corte. Porre l’onere di promuovere il procedimento di mediazione a carico dell’opponente (cioè del debitore) si traduce, in caso di sua inerzia, nella irrevocabilità del decreto ingiuntivo come conseguenza del mancato esperimento di un procedimento che non è giurisdizionale. Se è pur vero che la procedura di mediazione ha una finalità deflattiva, in armonia con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo è altrettanto evidente che nel conflitto tra il principio di efficienza e ragionevole durata e la garanzia del diritto di fesa, quest’ultimo deve necessariamente prevalere.

29 settembre 2020.


Trust. Istruzioni d’uso.

È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni individuati come profitto di reati tributari e conferiti in un trust dall’indagato, se sussistono elementi presuntivi tali da far ritenere che sia stato costituito a fini meramente simulatori.

Così ha sancito la Corte di Cassazione con l’Ordinanza numero 25991 depositata il 15 settembre 2020.

La controversia aveva ad oggetto il provvedimento con cui la Guardia di finanza, non rinvenendo beni e denaro nella disponibilità degli indagati per evasione fiscale, aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni facenti parte del patrimonio di un trust, tra cui una società di cui gli indagati erano rappresentanti legali, oltre a beni immobili, conti correnti bancari nonché un credito per finanziamento soci.

Come noto l’istituto del trust, sebbene non compiutamente regolato dalle leggi italiane, è utilizzabile nel nostro ordinamento giuridico per effetto della legge 364 del 1989 con la quale il nostro Paese ha recepito la convenzione dell’Aja sui trust.

Se correttamente istituito il trust consente a colui che lo costituisce (il disponente) di separarsi di una parte del proprio patrimonio, che diviene di proprietà del trust con il conseguente effetto di rendere non più aggredibili i beni da parte dei creditori personali del disponente.

Per poter ottenere questi effetti, il trust deve essere costituito in tempi non sospetti (ovvero, tipicamente, in assenza di azioni già avviate dai creditori del disponente) ed escludere il mantenimento, in capo al disponente (o a soggetti che a lui comunque rispondono), di poteri sulla gestione dei beni apportati nel trust.

Secondo la Corte di Cassazione, nel trust oggetto del contenzioso mancavano questi requisiti. In particolare, viene stigmatizzata negativamente la presenza, nel trust, di un guardiano (ovvero di un soggetto deputato a verificare il corretto funzionamento del trust) poco autonomo, di fatto una longa manus di colui che ha dato vita al trust determinando così anche una evidente natura simulatoria del trust stante la permanenza, appunto attraverso il guardiano, di ampi poteri gestionali dei beni in esso conferiti da parte degli originari proprietari.

Il provvedimento della Cassazione, in conclusione, non disconosce in assoluto l’utilizzabilità e la validità del trust ma ricorda che il suo corretto uso non può prescindere dal rispetto dei principi e delle regole di funzionamento contenute nella citata legge 364 del 1989.

24 settembre 2020.


Privacy. Nuove linee guida dall’Europa.

Il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB) ha adottato linee-guida sui concetti di titolare del trattamento e responsabile del trattamento nel regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) e linee-guida sul targeting degli utenti dei social media.

Lo ha reso noto nei giorni scorsi il Garante della Privacy sul proprio sito.

Il citato Comitato europeo ha inoltre creato una task force che si occuperà dei reclami pervenuti a seguito della sentenza Schrems II con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 16 luglio scorso si è pronunciata in merito al regime di trasferimento dei dati tra l'Unione europea e gli Stati Uniti.

Uno degli obiettivi principali delle linee-guida è appunto chiarire i molti dubbi ancora esistenti tra gli operatori sulla qualificazione del titolare e del responsabile del trattamento dati.

A giudizio del Comitato Europeo, per esempio, l’impresa di pulizie non è responsabile del trattamento dei dati. Sia l’impresa sia i suoi dipendenti che accedono ai locali aziendali per svolgere le loro mansioni non sono autorizzati a trattare dati per conto del committente.

Gli addetti alle pulizie non dovrebbero accedere ai dati né trattarli. Anche se possono occasionalmente imbattersi in tali dati quando si spostano in ufficio, possono svolgere il loro compito senza accedere ai dati ed è loro contrattualmente vietato accedere o altrimenti trattare i dati personali detenuti dalla società con la quale ha concluso il contratto di fornitura di servizi di pulizia.

L’impresa di servizi di pulizia e i suoi dipendenti devono, quindi, essere considerati come terzi e il titolare deve assicurarsi che vi siano adeguate misure di sicurezza per impedire loro di avere accesso ai dati e stabilire un obbligo di riservatezza nel caso in cui debbano accidentalmente imbattersi in dati personali.

Per approfondimenti ulteriori si rinvia al sito www.garanteprivacy.it 

22 settembre 2020.


EVFTA - Accordo di libero scambio tra l'Unione Europea e la Repubblica Socialista del Vietnam, in vigore dal 1° agosto 2020.

 

Il 1° agosto 2020 è entrato in vigore l'accordo di libero scambio tra l'Unione Europea e la Repubblica socialista del Vietnam (in breve “EVFTA”), i cui negoziati erano ufficialmente iniziati nel 2012.

Si tratta del secondo accordo stipulato dall’Unione Europea con un paese del sud-est asiatico, dopo quello con Singapore entrato in vigore il 21 novembre 2019, nonché del più ambizioso accordo negoziato e concluso con un Paese emergente.

 

L’accordo prevede la sostanziale liberalizzazione degli scambi commerciali fra Stati membri dell’Unione Europea e Vietnam, con una progressiva eliminazione dei dazi all’importazione. In particolare, il 65% del valore delle esportazioni europee verso il Vietnam è liberalizzato sin dall’entrata in vigore e per le rimanenti categorie di merci – con limitate eccezioni – è prevista la progressiva riduzione, anno per anno, delle tariffe doganali, sino all’eliminazione del 99% delle stesse nell’arco di un periodo di dieci anni.

Analogamente, il 71% del valore delle esportazioni dal Vietnam verso Paesi dell’Unione Europea è esentato da dazi sin dall’entrata in vigore dell’accordo e, per le rimanenti categorie, è prevista la progressiva riduzione, anno per anno, sino all’eliminazione del 99% dei dazi entro sette anni.

 

L’EVFTA non si limita all’eliminazione delle tariffe doganali. È infatti un accordo di libero scambio “di nuova generazione”, che prevede anche l’eliminazione delle barriere non tariffarie, oltre a reciproci e significativi impegni di cooperazione in molti ambiti, come:

- regole di origine, con uno specifico protocollo, per garantire l’applicabilità dei benefici solo ai prodotti effettivamente originati in Unione Europea o Vietnam (ed evitare l’abuso dei benefici tariffari dell’EVFTA);

- eliminazione delle barriere tecniche all’importazione;

- accesso agli appalti pubblici;

- tutela della concorrenza;

- tutela dei diritti di proprietà industriale;

- protezione delle Indicazioni Geografiche (con il riconoscimento di 169 Indicazioni Geografiche europee da tutelare, di cui 38 italiane);

- misure sanitarie e fitosanitarie;

- sviluppo sostenibile, con riferimento alla tutela dell’ambiente e alla tutela del lavoro e dello sviluppo sociale;

 - promozione della tutela dei diritti umani e della democrazia;

- sistemi più efficienti e accessibili di risoluzione delle controversie.

Inoltre, l’EVFTA garantisce altresì l’accesso reciproco al mercato dei servizi, facilitando il riconoscimento delle qualifiche e l’offerta transfrontaliera di servizi di vario genere, oltre alla compravendita di merci.

 

Il sistema di accordi fra UE e Vietnam prevede anche un accordo sulla protezione degli investimenti stranieri (in breve “EVIPA”), che nel corso delle negoziazioni è stato separato dall’EVFTA e che entrerà in vigore successivamente, quando saranno completate le procedure di ratifica.

L’accordo, che sostituirà i trattati bilaterali di protezione degli investimenti (ad oggi ne sono in vigore 21), costituirà un ulteriore strumento di facilitazione degli scambi commerciali fra Unione Europea e Vietnam, garantendo un efficace sistema di protezione degli investimenti esteri e di risoluzione delle eventuali controversie relative ai medesimi.

 

L’EVFTA entra in vigore in un momento storico molto particolare, in cui altri fattori contribuiranno a rafforzarne in modo decisivo l’impatto sulle relazioni commerciali fra Paesi UE e Vietnam.

Da un lato, infatti, l’imprevedibile pandemia da COVID-19 ha mutato repentinamente e drammaticamente gli scenari economici. In questo contesto, il Vietnam ha dimostrato di essere uno dei Paesi che, a livello globale, hanno risposto meglio e in modo più tempestivo ed efficace all’emergenza, contenendo i contagi a livelli minimi. Nonostante una recrudescenza degli ultimi giorni, si conferma una delle nazioni in cui il virus ha colpito meno e meno duramente, con effetti più contenuti anche a livello sociale e di sviluppo economico (si stima una crescita del PIL poco inferiore al 3% nel 2020, nonostante la pandemia).

Sotto altro profilo, il Vietnam si presenta oggi come la più valida alternativa alla Cina per quanto riguarda, in molti settori, l’industria manifatturiera. La “guerra dei dazi” fra Stati Uniti e Cina, unitamente alla consapevolezza post-COVID che l’eccessiva dipendenza dal colosso asiatico per tutta la produzione costituisce un rischio non accettabile, stanno spingendo molte aziende a spostare stabilimenti produttivi fuori dai confini cinesi. In quest’ottica il Vietnam può offrire molti vantaggi, pur essendo nella medesima area geografica e al confine con la Cina: stabilità di governo; dazi ridotti (anche grazie all’EVFTA); economia in crescita costante; popolazione giovane e disponibilità di forza lavoro; costi di manodopera inferiori a quelli cinesi, ecc.

 

Non vi è dubbio che l’EVFTA e l’EVIPA genereranno un incremento significativo delle relazioni commerciali fra Stati membri dell’Unione Europea e Vietnam e delle esportazioni reciproche, creando molte opportunità di business.

Ci sono certamente alcune difficoltà da superare: il Vietnam deve ancora investire in infrastrutture e nella semplificazione della burocrazia, così come le aziende vietnamite dovranno adeguarsi a un mercato molto regolamentato come quello europeo e prestare attenzione alle regole di origine, se vogliono beneficiare dell’accordo di libero scambio.

D’altro canto, sul lato europeo qualcuno teme che le liberalizzazioni possano nuocere all’economia locale, aprendo alla concorrenza di fornitori a basso costo. Tuttavia, considerando ad esempio il caso italiano, già oggi il deficit import/export è molto importante (nel 2018, il valore delle importazioni in Italia dal Vietnam è stato oltre il doppio del valore delle esportazioni verso il Vietnam, e ciò anche a causa delle barriere tariffarie). Le liberalizzazioni previste dall’EVFTA, pertanto, genereranno maggiore concorrenza sul mercato locale, ma faciliteranno notevolmente le esportazioni, che per l’economia italiana sono fondamentali.

A ciò si aggiungeranno, inoltre, molte opportunità e molti vantaggi c.d. “indiretti”, a beneficio dell’economia di entrambe le parti dell’accordo.

In definitiva – e in attesa di poterne valutare nel medio periodo gli effetti numerici – si può concludere che l’EVFTA è uno strumento ambizioso, avanzato e certamente utile e benvenuto.

Avv. Davide M. Gallasso, LL.M.

05/08/2020

 

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Segni distintivi: il conflitto tra società aventi la medesima denominazione sociale patronimica.

La recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 13921 del 6.07.2020) approfondisce la questione.

Il caso riguarda due gruppi di società edilizie concorrenti aventi denominazione sociale composta dallo stesso patronimico, cognome che in entrambe ha assunto efficacia identificante, ingenerando un concreto rischio di confusione tra le due attività imprenditoriali, anche con profili di concorrenza sleale.

Il nocciolo della vicenda è quindi la legittimità o meno dell’utilizzo da parte di una società di capitali, nella propria denominazione, del cognome di un socio, quando un’altra sia già registrata con lo stesso patronimico.

In generale, si premette, l’inserimento del patronimico nella denominazione sociale della persona giuridica successivamente registrata non è di per sé vietata.

E ciò anche in applicazione dell’art. 21 del Codice della Proprietà Industriale, laddove sancisce che i diritti di marchio d'impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l'uso nell'attività economica del loro nome. Il principio così espresso è pacificamente esteso anche alle denominazioni di società di capitali.

Tale facoltà, tuttavia, può subire delle limitazioni quando, come nel caso di specie, il cognome assuma efficacia identificante e si verifichi la concreta possibilità di confusione, in relazione all'oggetto e al luogo delle rispettive attività. Tanto più ove l’uso non risulti conforme al canone generale della correttezza professionale.

Con riferimento alla formazione della denominazione sociale di una società di capitali, deve anzitutto ricordarsi che la disciplina in materia diverge rispetto a quella che il Codice civile detta in ambito di ragione sociale delle società di persone. Mentre per queste ultime vige, oltre al principio di verità, l’obbligo dell'inserimento nella ragione sociale almeno del nome di un socio illimitatamente responsabile, per le prime domina principio di libera formazione.

La disciplina della funzione identificativa svolta dalla denominazione sociale è invece regolata dall’art. 2567 c.c., che espressamente dichiara applicabili alla società le disposizioni dell’art. 2564 c.c. in tema di rischio di confusione tra le ditte individuali. Quest’ultima disposizione impone l’obbligo di differenziazione in capo all’impresa che ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.

Occorre pertanto che venga svolto un concreto accertamento circa l’esistenza di un rischio di confondibilità dei nomi commerciali delle società in conflitto, sul versante del rischio di associazione fra i segni. Tale giudizio dovrà, stante l’applicabilità dei principi sopra richiamati ed in particolare di quello della libertà della scelta della denominazione, essere svolto – in caso di società di capitali – in maniera più severa rispetto alla verifica dell’uso corretto della ditta patronimica. Eventuali variazioni tramite semplici aggiunte, ma con il mantenimento del cognome, vero “cuore” e segno distintivo dell’attività di impresa, potrebbe quindi non risultare sufficiente a scongiurare il pericolo di confusione. 

Accertata la situazione potenzialmente pregiudizievole, graverà sulla società che per seconda abbia utilizzato la denominazione uguale o simile l’obbligo di apportarvi integrazioni o modificazioni idonee a differenziarla, attribuendo quindi preminenza e prevalenza alla data di iscrizione nel registro delle imprese.

Resteranno invece irrilevanti ulteriori circostanze, quali il fatto che si tratta del cognome di imprenditore individuale la cui impresa è stata conferita nella società, così come il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società o il fatto che la denominazione coincide col cognome di uno dei soci, visto il principio già enunciato di libera formazione della denominazione sociale.

Nel caso di specie la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha confermato la sentenza di merito pronunciata dalla Corte d’Appello di Roma, con la quale era stato accertato che l’utilizzo del medesimo patronimico da parte delle società successivamente costituite costituiva violazione del diritto della prima all'uso esclusivo della sua denominazione sociale e atto di concorrenza sleale: tale uso aveva difatti creato confusione con il nome e l'attività svolta, poiché era in grado di far ritenere ad operatori anche avveduti che le società coinvolte appartenessero al medesimo gruppo imprenditoriale.

Gli stessi principi sono ad ogni modo applicati dalla giurisprudenza di legittimità in caso di omonimia o similitudine delle denominazioni sociali, a prescindere dall’uso del patronimico.

14 luglio 2020.


Fideiussione e contratto autonomo di garanzia: elementi discriminanti e conseguenze.

 

È prassi che gli istituti di credito, ai fini della concessione di un mutuo o di affidamenti bancari, pongano quale condizione imprescindibile il rilascio di adeguate garanzie, reali o personali.

Le garanzie personali, è noto, sono quelle che impegnano le persone fisiche o giuridiche che le prestano con tutto il loro patrimonio, quali le fideiussioni e i contratti autonomi di garanzia.

Queste due fattispecie presentano diversi tratti in comune e vengono spesso confuse, confusione che viene di sovente ingenerata nei garanti dallo stesso istituto bancario: di frequente, infatti, tali soggetti si trovano a sottoscrivere un modulo denominato “Fideiussione omnibus”, che si rivela invero essere – magari a seguito dell’avvio di un contenzioso con la banca – un contratto autonomo di garanzia.

Vediamo quindi quali sono gli elementi discriminanti tra i due schemi negoziali e, di conseguenza, a quali clausole è necessario prestare attenzione prima di firmare, quanto meno per essere pienamente consci delle obbligazioni che si vanno ad assumere.

Di preminente importanza sul punto è la sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite – n. 3947 del 18.02.2010 – che, in tema di appalto, ha risolto un conflitto ormai perdurante nel tempo, qualificando la polizza fideiussoria come garanzia atipica e distinguendola, per l’effetto, dalla fideiussione. Numerose sentenze, sia di merito che di legittimità, si sono poi succedute nel tempo, ponendosi pressoché tutte sulla medesima linea. Tra le più recenti, si evidenziano le seguenti: Cass. Civ., sez. I, 31/10/2019, n. 28204; Cass. Civ., sez. III, 22/11/2019, n. 30509; Cass. Civ., sez. III, 5/03/2020 n. 6177; Corte d’Appello L’Aquila, 15/05/2020 n. 684; Trib. Vibo Valentia, 23/04/2020 n. 238; Trib. Arezzo, 1/04/2020 n. 254.

In generale, per contratto autonomo di garanzia si intende quel negozio giuridico con cui il garante, incaricato dal debitore, assume nei riguardi del creditore l'impegno ad effettuare una determinata prestazione, nell'ipotesi in cui il debitore non adempia alle proprie obbligazioni.

Vale a qualificare il rapporto quale contratto autonomo di garanzia (a prescindere dal nomen iuris assegnato dalle parti, di per sé niente affatto decisivo) l’assenza dell’elemento dell’accessorietà, insita nel fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dall’art.1945 cod. civ.. Tale elemento si concretizza usualmente, nel testo del contratto, nell’impegno della parte ad eseguire la prestazione del debitore “a prima richiesta” o “a semplice richiesta” e “senza eccezioni”. Salvo, precisano talune pronunce, quando vi sia un’evidente discrasia rispetto all’intero contenuto della convenzione negoziale e pertanto emerga una diversa volontà delle parti.

Il contratto autonomo di garanzia (cd. Garantievertrag) ha dunque la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale. La causa del contratto è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale: l'obbligazione del garante autonomo si pone pertanto in via del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario «essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all'adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore».

Al contrario, il fideiussore, “vicario” del debitore principale, garantisce la medesima obbligazione altrui e quindi – stante l’elemento dell’accessorietà – è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale.

Le conseguenze di tale distinguo non sono di poco conto.

L’autonomia della prima figura negoziale e la sua natura indennitaria implicano anzitutto, come già visto, l’impossibilità di far valere le eccezioni relative all'esistenza, validità e coercibilità del rapporto obbligatorio sottostante, spettanti dal debitore principale. Analogamente quindi vige l’impossibilità, per il garante, di esercitare un'azione recuperatoria nei confronti del creditore dopo il pagamento, facendo leva su eccezioni che attengono al rapporto principale.

Naturalmente, precisa la Suprema Corte, resta fermo il diritto del garante di eccepire la nullità del rapporto di provvista per contrarietà a norme imperative, l’inesistenza del rapporto garantito, la nullità del contratto di garanzia stesso, e la c.d. “exceptio doli generalis”, per il caso in cui vi sia un’escussione dolosa e fraudolenta della garanzia da parte del creditore.

Non potranno in ultimo applicarsi le ulteriori disposizioni dettate dal Codice civile, a tutela della posizione del fideiussore. Ad esempio, il garante autonomo non potrà liberarsi dall’impegno assunto se il creditore, in difetto di autorizzazione e al corrente della deteriore situazione patrimoniale del debitore, abbia fatto o abbia continuato a far credito al medesimo.

10 giugno 2020


L'emergenza Covid riporta alla ribalta il reato di speculazione su merci

Durante il periodo emergenziale quasi tutti siamo andati alla ricerca di prodotti a tratti “introvabili”, ovvero rinvenuti a prezzi esorbitanti.

In primis le mascherine, per non parlare dei guanti o dell’alcool igienizzante, tanto da indurre il legislatore addirittura a prevedere ex lege prezzi calmierati.

Sfugge peraltro agli speculatori che la condotta volta a determinare “la rarefazione o il rincaro sul mercato interno di materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità” può assumere rilevanza penale ex art. 501 bis c.p. e portare ad una condanna detentiva, oltre ad una multa e soprattutto alle sanzioni accessorie, tra le altre, dell’interdizione dall’esercizio di specifiche attività commerciali o industriali.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale affinché possa configurarsi detto reato basta che anche un solo operatore commerciale speculando sull’emergenza epidemiologica da COVID-19, ponga in essere una condotta, anche solo astrattamente, idonea ad influenzare altri operatori, su base territoriale.

Il concetto di speculazione peraltro può essere nel concreto di difficile inquadramento, avendo tutta l’attività d’impresa, costituzionalmente tutelata dall’art. 41, un’intrinseca finalità di lucro.

Riprova ne sono due recenti sentenze (Tribunale di Salerno, Ufficio GIP, e Tribunale del Riesame di Lecce), le quali, pur convergendo nel ritenere le mascherine chirurgiche quali prodotti di prima necessità e pur riconoscendo che possano ritenersi speculativi anche gli aumenti estremamente sensibili dei prezzi applicati da un singolo commerciante, sono giunte a conclusioni difformi circa la capacità della singola condotta di mettere in pericolo il “mercato interno”, requisito tipicizzante il reato.

In attesa di pronunce di legittimità o ancor meglio di un intervento legislativo sul punto, rimane la possibilità di inquadrare comunque le condotte tipizzate dall’art. 501-bis c.p. nell’ambito delle «pratiche commerciali scorrette» di cui all’art. 20 del codice del consumo.

8 giugno 2020


Contact Tracing: rischio per la privacy?

 

È ora possibile scaricare Immuni, App promossa dal Ministero della Salute e realizzata da Bending Spoons, basata sul segnale bluetooth, per monitorare i potenziali contagiati e arginare la diffusione del virus.

Essendo evidente un rischio potenzialmente elevato circa la riservatezza dei dati personali, il Garante Privacy ha comunque autorizzato il Ministero ad avviare la sperimentazione, visti gli esiti della valutazione d’impatto: il trattamento di dati nell’ambito del sistema può essere considerato proporzionato essendo state previste misure volte a garantire il rispetto dei diritti e le libertà degli interessati.

Considerate tuttavia la complessità del sistema di allerta e il numero dei soggetti potenzialmente coinvolti, il Garante ha richiesto l’adozione di alcune ulteriori misure volte a rafforzare la sicurezza, riguardanti le informazioni da fornire agli utenti, le finalità del trattamento, i tempi di conservazione degli indirizzi IP, le misure tecniche e organizzative per mitigare i rischi derivanti da falsi positivi.

I più accorti avranno intanto notato la comparsa, nelle impostazioni di sistema del proprio smartphone, senza richiesta di autorizzazioni, dell’API «Notifiche di esposizione al Covid-19». Fake news già svelate: nessun tracciamento illecito, ma solo una componente necessaria per il funzionamento dell’app, qualora scaricata.

3 giugno 2020


Non vi è automatismo fra infortunio sul lavoro da COVID-19 e responsabilità del datore di lavoro.

 

Il riconoscimento della tutela INAIL nei casi di infortunio sul lavoro per contagio da COVID-19 non comporta, in via consequenziale ed automatica, l’accertamento della responsabilità civile e/o penale del datore di lavoro per il contagio subito dal lavoratore.

È quanto ha precisato la circolare INAIL n. 22 del 20.05.2020, dopo le perplessità sollevate dalla precedente circolare n. 13 del 03.04.2020, con la quale l’Istituto aveva fornito indicazioni e chiarimenti sull’applicazione della norma contenuta nell’art. 42, comma II, del D.L. n. 18 del 17.03.2020 (c.d. Decreto “Cura Italia”, convertito in Legge n. 27 del 24.04.2020) e dettata in materia di tutela assicurativa prestata dall’INAIL nei casi di contagio da COVID-19 in occasione del lavoro.

La circolare INAIL n. 13 del 03.04.2020 ha evidenziato l’operatività, in ambito di tutele INAIL per infortuni da COVID-19, del principio della “presunzione semplice” di contrazione dell’infezione da nuovo Coronavirus in occasione del lavoro, in particolare per quelle categorie di lavoratori maggiormente esposti al rischio di contagio da Covid-19 (operatori sanitari, medici, infermieri, ecc.).

Dopo la pubblicazione della circolare n. 13/2020, si era dubitato che la tutela INAIL degli eventi di contagio da COVID-19 potesse comportare una responsabilità civile e/o penale del datore di lavoro in via del tutto automatica e consequenziale e che questa fosse destinata a ricorrere in un numero sempre più esteso di casi, in considerazione dell’ampio raggio di operatività del principio della presunzione semplice.

A sciogliere ogni dubbio e a dissipare le comprensibili preoccupazioni di imprenditori e datori di lavoro è intervenuta la circolare INAIL n. 22 del 20.05.2020, che ha precisato come il riconoscimento dell’origine professionale del contagio sia «totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio».

I presupposti per la sussistenza della responsabilità civile e/o penale del datore di lavoro devono essere accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative dell’INAIL: da un lato occorrerà dare la prova della sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento (omissivo) datoriale ed il contagio da COVID-19 subito dal lavoratore; dall’altro occorrerà anche dare la prova dell’imputabilità al datore di lavoro, a titolo di dolo o di colpa, della sua condotta (omissiva).

La responsabilità datoriale, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte, può ravvisarsi in tutti casi in cui la lesione del bene tutelato (come il contagio da COVID-19) subita dal lavoratore costituisca diretta conseguenza della violazione (per dolo o per colpa) da parte del datore di lavoro di «determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto» (da ultimo Cass. Civ. 3282/2020 e Cass. Civ. 14066/2019).

Ora, considerato che, nell’attuale periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19, gli «obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche» possono essere ben individuati nei protocolli e nelle linee guida contenuti negli atti normativi statali o regionali, previsti dall’art. 1, comma 14, del D.L. n. 33 del 16.05.2020, è lecito concludere che il rispetto delle misure cd. “di contenimento”, previste dai predetti protocolli e linee guida, sia da ritenersi sufficiente ad escludere la responsabilità civile e penale del datore di lavoro.

28 maggio 2020


Danno da illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi.

In crescita il numero di contenziosi tra Istituti di Credito e clienti, per illegittime segnalazioni “a sofferenza” nei sistemi di valutazione del merito creditizio, quale la Centrale dei Rischi presso Banca d’Italia.

I più ricorrenti profili di illegittimità sono riconducibili alla mancata comunicazione al debitore del preavviso di segnalazione, nonché all’errata o carente istruttoria di valutazione patrimoniale complessiva del cliente, che dovrebbe essere esperita dall’intermediario prima dell’iscrizione (essendo come noto insufficiente a tal fine l’inadempimento di un solo rapporto o un ritardo di modesta entità nel pagamento del debito). La segnalazione è inoltre illegittima se non è attuale o aggiornata, o se relativa ad un credito oggetto di contestazione.

Accertata l’illegittimità della segnalazione nelle banche dati creditizie e la relativa responsabilità a carico dell’istituto bancario, il soggetto ingiustamente segnalato potrà ottenere la cancellazione del proprio nominativo e avrà diritto ad ottenere il risarcimento del danno patito.

Il danno da “illegittima segnalazione” potrà declinarsi sia come danno non patrimoniale, comprensivo pertanto – per le persone fisiche come per quelle giuridiche – di danno morale, all’immagine e alla reputazione personale e commerciale, sia come danno patrimoniale. Sotto tale profilo il danno si concretizza in numerose fattispecie; tra le più comuni si attestano la riduzione della possibilità di investimenti o di ottenere finanziamenti, la revoca di fidi o il rifiuto di aprire nuovi conti correnti.

Le strade percorribili per ottenere l’accertamento dell’illegittima segnalazione e il relativo risarcimento sono il ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario, ovvero il giudizio civile, con altresì possibilità di attivare il procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c..

Ma, in ipotesi di ricorso alla giustizia ordinaria, qual è l’onere della prova a carico del soggetto leso?

La recente sentenza n. 6167 del 5.03.2020 della Corte di Cassazione è intervenuta proprio sul punto, trattando il caso di una illecita segnalazione presso le banche dati creditizie, a causa di un errore di persona per omonimia. I principi generali sull’onere probatorio ivi enunciati sono comunque estensibili ad ogni giudizio per risarcimento danni da illegittima segnalazione a sofferenza.

Confermato anzitutto il principio già espresso dalle Sezioni Unite (n. 26972/2008) in base al quale è risarcibile il solo danno-conseguenza, e non anche il danno-evento, dovendosi escludere la tesi del danno in re ipsa, in quanto «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Ricordano poi gli Ermellini che vige, in ambito civile, il criterio del “più probabile che non” ai fini dell'accertamento della sussistenza del nesso di causalità che astringa il danno-evento alla condotta e il danno-conseguenza al danno evento. Ribaltata così la sentenza d’appello fortemente lesiva degli interessi del soggetto illegittimamente segnalato, che negava il risarcimento del danno non patrimoniale per non essere «certo ed univoco» che il segnalato avesse effettivamente subito un danno di natura non patrimoniale.

Per ogni ulteriore approfondimento, chiarimento o necessità, non esitate a contattarci.

26 maggio 2020


Stabilimenti balneari e strutture ricettive: misure per la riapertura.

Disposta con il DPCM 17 maggio la riapertura delle attività degli stabilimenti balneari e delle strutture ricettive, purché, naturalmente venga assicurato il rispetto protocolli e linee guida atti a prevenire o ridurre il rischio di contagio, con l’obiettivo di garantire la salute e sicurezza sia degli operatori che dell’utenza.

L’art. 1 del DPCM tratta di detti ambiti alle lettere mm) e nn), sostanzialmente rimandando alle Regioni la preventiva valutazione di compatibilità tra la ripresa delle attività e l’andamento epidemiologico nel territorio, nonché l’adozione di linee guida specifiche.

Quanto al nostro territorio, il Governatore Fontana, con ordinanza n. 547 del 17.05.2020, ha dato il via libera, tra le altre, anche alle attività oggetto di questo approfondimento, nel rispetto delle “Linee di indirizzo per la riapertura delle Attività Economiche e Produttive” approvate in data 15 maggio 2020 dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, adattate per lo specifico contesto della Regione Lombardia.

Settore della balneazione.

Tale settore è da inserirsi tra quelli a rischio di aggregazione medio-alto secondo la classificazione INAIL, sono quindi molte le cautele da adottare per una fruizione in sicurezza di tali spazi (che siano stabilimenti balneari, spiagge attrezzate o spiagge libere).

In sintesi, le principali indicazioni richiedono di:

- predisporre una adeguata informazione sulle misure di prevenzione da adottare;

- rilevare ai lavoratori. La misurazione è fortemente raccomandata anche per i clienti;

- privilegiare l’accesso tramite prenotazione e favore l’uso di sistemi di pagamento veloci;

- riorganizzare gli spazi, predisponendo se possibile percorsi separati di ingresso e uscita, e assicurando un distanziamento tra ombrelloni in modo da garantire una superficie di almeno 10mq per ciascuno, ovvero di almeno 1,5m tra le attrezzature da spiaggia;

- disporre una regolare e frequente pulizia e disinfezione delle aree comuni (docce, cabine, servizi igienici), nonché una sanificazione delle attrezzature ad ogni cambio di persona;

- vietare attività ludico-sportive che potrebbero dar luogo ad assembramenti.

Con specifico riferimento alle spiagge libere le linee guida ribadiscono l’importanza dell’informazione e responsabilizzazione individuale degli avventori nell’adozione di comportamenti rispettosi delle misure di prevenzione, suggerendo la presenza di un addetto alla sorveglianza.

Strutture ricettive.

Le indicazioni applicabili alle strutture ricettive alberghiere e non, richiedono, oltre alla predisposizione di adeguata informazione sulle misure di prevenzione da adottare e alla rilevazione della temperatura corporea (obbligatoria per i lavoratori e fortemente raccomandata per i clienti):

- garantire il rispetto del distanziamento interpersonale di 1m nelle aree comuni (dove gli ospiti dovranno sempre indossare le mascherine), predisponendo differenziazione dei percorsi all’interno delle strutture, e per l’utilizzo degli ascensori;

- favorire modalità di pagamento elettroniche e gestione delle prenotazioni online, con sistemi automatizzati di check-in e check-out ove possibile;

- garantire un’ampia disponibilità e accessibilità a sistemi per l’igiene delle mani;

- garantire la frequente pulizia e disinfezione di tutti gli ambienti e locali, nonché di ogni oggetto fornito in uso dalla struttura all’ospite;

- garantire un’adeguata aerazione dei locali e una manutenzione attenta di tutti i sistemi di ventilazione.

Per l’attività di ristorazione all’interno delle strutture ricettive si applicano le specifiche misure fornite per detto settore.

Le misure individuate dalla Conferenza delle regioni (anche sulla base dei documenti tecnici elaborati da INAIL e ISS) e sopra riportate in sintesi sono già oggetto di pesanti critiche da parte dei gestori di stabilimenti balneari e di strutture ricettive, in quanto troppo stringenti, se non addirittura proibitive per una effettiva ripresa delle attività. Le stesse potranno comunque subire delle modulazioni nel prossimo futuro in relazione all’andamento dei contagi.

Seppure con modalità diverse e con molte cautele, pare ad ogni modo che possiamo ormai riprendere ad organizzare le agognate vacanze estive.

Di seguito i link per consultare il testo completo del DPCM 17 maggio e dell'ordinanza lombarda n. 547/2020.

21 maggio 2020


In Gazzetta Ufficiale il D.L. 19.5.2020 n. 34 (c.d. Decreto Rilancio), in vigore da oggi.

 

Promulgato il Decreto Rilancio, maxi-provvedimento di 266 articoli recante misure atte a riavviare l’economia italiana, bloccata dalla gravissima crisi innescata dall’emergenza sanitaria da Covid-19.

Manovra straordinaria da 55 miliardi, che prevede interventi a rafforzamento del settore sanitario e numerose misure a sostegno delle imprese e dei lavoratori (quali, ad esempio, contributi a fondo perduto, cancellazione IRAP, contributi per affitti e bollette, allungamento delle tutele della Cassa Integrazione, reddito di emergenza e indennità per i lavoratori autonomi).

Interventi anche in favore di Università, ricerca e cultura; importanti risorse destinate altresì a sostenere il settore turismo.

Introdotte infine ulteriori misure fiscali, anche a riduzione gli oneri per dispositivi di protezione, spese di sanificazione e adeguamento degli ambienti di lavoro e spazi commerciali.

Il saldo netto da finanziare ammonta a 154,6 miliardi, destinati alla ripresa dell’Italia post lockdown, anche per mezzo dei 98 decreti attuativi cui il testo rimanda.

Il testo completo del Decreto Legge al seguente link: Decreto Rilancio

20 maggio 2020


Operazione Cena Fuori. Riaprono bar e ristoranti.

Dalla giornata di ieri, 18 maggio, è stata concessa la riapertura di bar e ristoranti, come stabilito dall’art. 1, comma 1, lett. ee) del D.P.C.M. 15.05.2020, attuativo del D.L. 16.05.2020.

Tante però le disposizioni a cui i ristoratori si devono attenere da desumersi da ben tre fonti normative: i Criteri per Protocolli di settore elaborati dal Comitato tecnico-scientifico in data 15 maggio 2020; le Linee guida per la riapertura delle attività economiche e produttive della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome del 16 maggio 2020; e, per la Lombardia, le schede tecniche di cui all’allegato n. 1 dell’ordinanza regionale n. 547 del 17.05.2020.

Una vera giungla normativa per gli operanti del settore, i contenuti dei diversi provvedimenti, sono fortunatamente per lo più equivalenti.

Di seguito vediamo le principali misure necessarie per garantire la riapertura in sicurezza e nel rispetto delle regole in Lombardia, che prevede l’obbligo del rilevamento della temperatura anche ai clienti, solo raccomandato per le altre regioni:

  • Predisporre una adeguata informazione sulle misure di prevenzione, comprensibile anche per i clienti di altra nazionalità.
  • Rilevamento della temperatura obbligatorio per i dipendenti prima dell’accesso sul luogo di lavoro;
  • Rilevamento della temperatura raccomandato per i clienti ed obbligatorio nel caso questi consumino al tavolo;
  • È necessario rendere disponibili prodotti igienizzanti per i clienti e per il personale anche in più punti del locale, in particolar modo agli ingressi e in prossimità dei servizi igienici da pulire più volte al giorno;
  • Negli esercizi che dispongono di posti a sedere privilegiare l’accesso tramite prenotazione, mantenere l’elenco dei soggetti che hanno prenotato, per un periodo di 14 giorni. In tali attività non possono essere presenti all’interno del locale più clienti di quanti siano i posti a sedere;
  • Negli esercizi che non dispongono di posti a sedere, consentire l’ingresso ad un numero limitato di clienti per volta, in base alle caratteristiche dei singoli locali, in modo da assicurare il mantenimento di almeno 1 metro di separazione tra i clienti;
  • Laddove possibile, privilegiare l’utilizzo degli spazi esterni (giardini, terrazze, plateatici), sempre nel rispetto del distanziamento di almeno 1 metro;
  • I tavoli devono essere disposti in modo che le sedute garantiscano il distanziamento interpersonale di almeno 1 metro di separazione tra i clienti, salvo i casi di accompagnamento di minori di sei anni o persone non autosufficienti;
  • La consumazione al banco è consentita solo se può essere assicurata la distanza interpersonale di almeno 1 metro clienti;
  • La consumazione a buffet non è consentita;
  • Il personale di servizio a contatto con i clienti deve utilizzare la mascherina e deve procedere ad una frequente igiene delle mani;
  • Favorire il ricambio d’aria, allestire apposite barriere fisiche nella postazione cassa, favorendo in ogni caso le modalità di pagamento elettroniche, possibilmente la tavolo.
  • Le mascherine dovranno essere indossate oltre che dal personale, anche dai clienti se non sono seduti al tavolo;
  • Al termine di ogni servizio al tavolo andranno previste tutte le consuete misure di disinfezione delle superfici, evitando il più possibile utensili e contenitori riutilizzabili se non igienizzati (saliere, oliere, ecc). Per i menù favorire la consultazione online sul proprio cellulare, o predisporre menù in stampa plastificata, e quindi disinfettabile dopo l’uso, oppure cartacei a perdere.

Di seguito i link per la consultazione dei testi dei provvedimenti citati:

D.P.C.M. 17 maggio 2020

Ordinanza 547 Regione Lombardia

Criteri per Protocolli di settore

Linee Giuda conferenza delle regioni

19 maggio 2020


Pubblicati rispettivamente il 16 e 17 maggio il Decreto Legge n. 33 e il DPCM attuativo.

L’annunciato «liberi tutti» (o quasi) è stato effettivamente disposto: da oggi liberi spostamenti entro il territorio della regione, stop all’autocertificazione, riapertura di tutte le attività commerciali e possibilità di svolgere taluni eventi.

Dal 3 giugno sarà possibile circolare liberamente anche tra regioni e all’estero; ulteriori allentamenti delle misure restrittive residue dal 15 giugno.

Ma attenzione: in ogni caso dovranno essere rispettati protocolli e LineeGuida – regionali o nazionali – volti ad assicurare adeguati livelli di protezione: divieto di assembramenti, distanziamento interpersonale, uso di mascherine e sanificazioni continueranno a condizionare ogni attività.

Nella tabella, l’elenco delle attività concesse e la relativa data di ripartenza.

18 maggio 2020


 

L’attività del Tribunale di Lecco durante la Fase 2

 

Giunto a termine il periodo di sospensione straordinaria disposto dal decreto Cura Italia, gli Uffici Giudiziari italiani stanno ora affrontando la loro Fase 2. In mancanza di una disciplina omogenea a livello nazionale, è rimessa ad ogni ufficio la predisposizione e diffusione di linee guida contenti misure organizzative che consentano la ripresa dell’attività in sicurezza.

Con specifico riferimento al nostro territorio, esaminiamo i decreti n. 2086 del 4.05.2020, n. 2086-bis del 6.05.2020 e relativi allegati, del Presidente del Tribunale di Lecco, nonché n. 41/20 e 662/20 dell’11.05.2020 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecco.

Le misure introdotte sono volte a disciplinare l’accesso al Palazzo di Giustizia per lo svolgimento delle incombenze di cancelleria e per la celebrazione delle udienze, sino al 31 luglio.

Udienze civili avanti il Tribunale.

Regola generale: rinvio di tutte le udienze a data successiva al 31.07.2020.

Eccezioni:

- affari urgenti indicati all’art. 83, c. 3, lett. A), D.L. 18/2020 e ss.mm.;

- cause di lavoro aventi ad oggetto impugnazione di licenziamenti con domanda di reintegra;

- cause di famiglia e minori urgenti ovvero di natura consensuale (ma solo con trattazione scritta);

- procedure concorsuali, ove sia possibile lo svolgimento dell’udienza con trattazione scritta;

- procedure esecutive, ove sia possibile lo svolgimento dell’udienza con trattazione scritta.

Udienze penali avanti il Tribunale.

È prevista una scansione temporale intermedia.

Fino al 7 giugno saranno celebrate unicamente le udienze relative a procedimenti:

- non sospesi ex art. 83, c. 3, lett. A), D.L. 18/2020 e ss.mm.;

- senza istruttoria, con imputati cautelarmente detenuti per lo stesso processo;

- oggetto di riesame;

- direttissimi a seguito di convalida di arresto.

Dall’8.06 al 31.07.2020 saranno celebrate le udienze relative a procedimenti:

- con imputati sottoposti a misura cautelare personale;

- in cui sono applicate misure di sicurezza;

- abbreviati senza istruttoria;

- patteggiamenti;

- udienze di sola discussione;

- udienze con la partecipazione delle sole parti;

- incidenti di esecuzione;

- di appello contro provvedimenti di sequestro;

- di prevenzione;

- comunque valutati urgenti dal giudicante.

Tutte le udienze diverse da quelle sopra richiamate sono rinviate a data successiva.

Udienze avanti il GIP.

È previsto il normale svolgimento delle udienze.

Udienze civili e penali avanti il Giudice di Pace.

Sono tutte rinviate a data successiva al 31.07.2020 le udienze chiamati avanti ai Giudici di Pace.

Per le udienze che verranno effettivamente celebrate saranno garantite le misure di sicurezza, limitando il numero dei soggetti presenti in aula, ovvero attuando modalità di partecipazione da remoto (con la copresenza in unico luogo dell’avvocato e dell’assistito) o ancora mediante trattazione scritta.

Cancellerie e front-office della Procura della Repubblica.

Non è previsto accesso libero alle cancellerie. Tutte le richieste e gli adempimenti andranno svolti in modalità telematica. Solo laddove non sia possibile, dovrà essere previamente concordato un appuntamento con lo specifico ufficio.

Gli utenti dovranno comunque sempre indossare i DPI e attenersi alle indicazioni del personale all’ingresso.

Di seguito il link dove reperire i testi di tutti i provvedimenti citati: Tribunale Lecco.

14 maggio 2020


Strumenti di ADR in tempi di Coronavirus: una valida alternativa al contenzioso giudiziale.

Come noto, il Decreto Cura Italia disponeva il rinvio d’ufficio delle udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari a data successiva al 15 aprile, termine prorogato all’11 maggio dal D.L. 23/2020.

Giunta ormai a termine la sospensione straordinaria, è evidente che la stessa porterà con sé importanti strascichi per diverso tempo, visto lo slittamento di tutte le attività che avrebbero dovuto essere svolte nei due mesi appena trascorsi. Vari fori stanno diffondendo in questi giorni linee guida per la trattazione degli affari giudiziari sino al termine del periodo emergenziale, con previsione di una ripresa delle normali attività, in sostanza, dal mese di settembre. Con la celebrazione delle udienze da remoto o mediante trattazione scritta, la già non rosea situazione dei tempi della giustizia è inevitabilmente destinata ad aggravarsi.

Ecco quindi che un valido supporto all’attività giudiziaria può, ora più che mai, essere rinvenuto nei cosiddetti strumenti di ADR (Alternative Dispute Resolution), quali la mediazione, la negoziazione assistita e l’arbitrato. Strumenti che potrebbero consentire, nel miglior interesse di tutte le parti coinvolte, la composizione di controversie e l’ottenimento di un titolo esecutivo in tempi rapidi e con piena soddisfazione degli aderenti all’accordo.

Proprio con lo scopo di potenziare il ricorso alla mediazione, in questo momento di sostanziale stasi della gestione del contezioso giudiziale, il Decreto Cura Italia, come convertito dalla L. 27/2020 – pur prevedendo al c. 20 dell’art. 83 la sospensione dei termini per lo svolgimento di ogni attività anche nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita già pendenti – ha sancito al c. 20-bis che in ogni caso gli incontri di mediazione, dal 9 marzo al 30 giugno 2020, potranno svolgersi in via telematica. Ciò, naturalmente, solo assunto il preventivo consenso di tutte le parti coinvolte.

La presente disposizione è anzi destinata a perdurare nel tempo, prevedendosi espressamente «anche successivamente a tale periodo» la possibilità di svolgere gli incontri di mediazione mediante sistemi di videoconferenza, secondo le modalità di cui al regolamento di ciascun organismo.

Come nel caso della procura alle liti (di cui si è trattato nell’articolo precedentemente pubblicato), gli obblighi di distanziamento sociale impongono tuttavia una revisione anche delle modalità di redazione e sottoscrizione del verbale e dell’eventuale accordo di mediazione. Sarà quindi compito – e, di conseguenza, responsabilità – non già più del mediatore, bensì dell’avvocato, mediante apposizione della firma digitale, di dichiarare autografa la sottoscrizione del proprio cliente collegato da remoto ed apposta in calce al verbale e all'accordo di conciliazione.

In ultimo, è previsto che, ai fini dell’esecutività dell’accordo, il verbale dovrà essere sottoscritto digitalmente dal mediatore e dagli avvocati delle parti.

Punti critici delle disposizioni, da valutarsi astrattamente positive per i motivi sopra ricordati, sono, da un lato, la scarsa efficacia dei tentativi di conciliazione sino ad oggi esperiti da remoto, il cui successo è strettamente collegato alla compresenza fisica delle parti e del mediatore, e, dall’altro, le difficoltà operative per i clienti che dovranno necessariamente dotarsi di sistemi di collegamento telematici, oltre che di stampanti e scanner per la sottoscrizione del verbale e il successivo invio al proprio avvocato.

Infine, per quanto concerne i procedimenti di arbitrato rituale, si è prevista l’estensione ad essi (e alle altre giurisdizioni speciali), se pure nei limiti della compatibilità, di tutte le disposizioni di cui all’art. 83 del D.L. stesso, riguardanti sospensione dei termini, udienze da remoto e trattazione scritta.

13 maggio 2020


Sottoscrizione della procura al difensore.

 

In sede di conversione del D.L. 18/2020 (Decreto Cura Italia) è stata inserita, tra le misure adottate in materia di giustizia, una novità circa le modalità di sottoscrizione della procura alle liti in ambito di procedimenti civili (art. 83, comma 20-ter).

La parte potrà difatti validamente apporre la propria sottoscrizione su un documento analogico trasmettendone poi una copia informatica (ossia una semplice scansione), anche a mezzo e-mail, al proprio avvocato, unitamente alla copia del documento d’identità. Il difensore potrà quindi certificarne l’autografia apponendo la propria firma digitale sulla copia ricevuta dal cliente.

Precisa in ultimo la disposizione in esame che la procura si considera apposta in calce, ex art. 83 c.p.c., se è congiunta all’atto cui si riferisce mediante gli strumenti informatici individuati con decreto del Ministero della giustizia.

Si potrà fare ricorso a tale modalità di sottoscrizione e certificazione dell’autografia a distanza – così che possano rispettarsi le misure di distanziamento sociale anche laddove ricorrano urgenze tali da non consentire un differimento del conferimento dell’incarico – solo fino alla cessazione delle misure stesse.

È chiaro quindi che, al di fuori di detta misura emergenziale, l’avvocato non potrà nemmeno in futuro autenticare le sottoscrizioni apposte aliunde e inviate mediante scansione dalla parte.

12 maggio 2020


Rimborso dei biglietti per eventi.

La Legge di conversione (n. 27/2020) conferma le misure già introdotte dal Decreto Cura Italia, all’art. 88, relative al rimborso dei titoli di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura.

La disposizione in parola scaturisce dall’impossibilità di usufruire dei biglietti di ingresso per un concerto o per una mostra d’arte, quale conseguenza dei provvedimenti di adozione di misure urgenti per fronteggiare l’emergenza sanitaria in essere. Le misure di contenimento interessate sono, chiaramente, (i) il divieto di spostamento, introdotto nel corso del mese di marzo e più volte esteso e (ii) la sospensione di tutte le manifestazioni e di tutti gli eventi organizzati in qualsivoglia luogo, sia esso pubblico o privato, ivi compresi eventi culturali, eventi di carattere ludico o sportivo, religioso e fieristico.

In virtù della necessaria applicazione di tali misure ricorre, per espressa previsione del decreto Cura Italia, la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di acquisto di titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura.

Coloro che avevano acquistato biglietti, ad esempio per accedere a mostre ed esposizioni, per partecipare a rappresentazioni teatrali, a concerti o a grandi eventi di qualsivoglia natura – che avrebbero dovuto svolgersi entro la data di efficacia delle misure di contenimento di cui al DPCM 8 marzo, ovvero previste dagli ulteriori decreti attuativi – hanno quindi diritto al rimborso del prezzo pagato.

La richiesta di rimborso deve essere presentata al soggetto organizzatore dell’evento, anche per il tramite dei canali di vendita da quest’ultimo utilizzati, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del D.L. ovvero di ciascun successivo decreto attuativo, allegando il relativo titolo di acquisto.

L’organizzatore dell’evento emetterà un voucher di importo pari al prezzo del biglietto, da utilizzare entro un anno dall’emissione, una volta verificata l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e, conseguentemente, l’inutilizzabilità del titolo di acquisto oggetto dell’istanza di rimborso.

11 maggio 2020


Titoli di viaggio e pacchetti turistici: la legge di conversione conferma l’emissione dei voucher «salva vacanza».

 

L’emergenza Covid-19 ha impedito e continua ad impedire la partecipazione a viaggi, vacanze ed eventi. 

Il tema dei rimborsi dei titoli di viaggio e dei pacchetti turistici è stato tra i primi ad essere affrontato dal Governo, già con l’art. 28 del D.L. 02.03.2020 n. 9 e con il successivo art. 88 del D.L. 17.03.2020.

La legge di conversione n. 27 del 24 aprile 2020 ha di fatto confermato le disposizioni di cui ai precedenti provvedimenti ed ha introdotto l’art. 88-bis a completamento della disciplina in materia, come di seguito sintetizzata.

Ipotesi di rimborso per impossibilità sopravvenuta.

La normativa introdotta stabilisce la sussistenza di un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1453 c.c. per i contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo, nelle acque interne o terrestre, di soggiorno e di pacchetto turistico per tutti i soggetti:

a) sottoposti a quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria, con riguardo ai contratti di trasporto da eseguirsi nel medesimo periodo di quarantena o permanenza domiciliare; 

b) residenti, domiciliati o destinatari di un provvedimento di allentamento dalle aeree interessate dal contagio, con riguardo ai contratti di trasporto da eseguirsi nel medesimo periodo di efficacia dei predetti provvedimenti; 

c) risultati positivi al virus COVID-19 per i quali è disposta la quarantena con sorveglianza attiva ovvero la permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva da parte dell’autorità sanitaria competente ovvero il ricovero presso le strutture sanitarie, con riguardo ai contratti di trasporto da eseguirsi nel medesimo periodo di permanenza, quarantena o ricovero; 

d) che hanno programmato soggiorni o viaggi con partenza o arrivo nelle aree interessate dal contagio, con riguardo ai contratti di trasporto da eseguirsi nel periodo di efficacia dei predetti decreti; 

e) che hanno programmato la partecipazione a concorsi pubblici o procedure di selezione pubblica, a manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, a eventi e a ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico, annullati, sospesi o rinviati dalle autorità, con riguardo ai contratti di trasporto da eseguirsi nel periodo di efficacia dei predetti provvedimenti; 

f) intestatari di titolo di viaggio, acquistati in Italia, avente come destinazione Stati esteri, dove sia impedito o vietato lo sbarco, l'approdo o l'arrivo in ragione della situazione emergenziale epidemiologica da COVID-19. 

Al ricorrere delle predette condizioni, i soggetti titolari di contratti di trasposto, impossibilitati all’utilizzo hanno diritto al rimborso.

Modalità rimborso dei vettori e delle strutture ricettive.

Tutti i soggetti interessati sono tenuti a comunicare al vettore (azienda ferroviaria, compagnia aerea, compagnia di autobus, ecc.) o alla struttura ricettiva (albergo, campeggio ecc.) l’impossibilità di usufruire del titolo acquistato, per il ricorrere di una delle ipotesi sopracitate, allegando il titolo di viaggio e, nell'ipotesi di cui alla lettera e), la documentazione attestante la programmata partecipazione ad una delle manifestazioni, iniziative o eventi indicati. 

La comunicazione deve essere effettuata entro trenta giorni decorrenti: 

a) dalla cessazione delle situazioni limitazione della libertà di spostamento (nei casi di quarantena, isolamento, divieto di allontanamento, ricovero);

b) dall'annullamento, sospensione o rinvio del corso o della procedura selettiva, della manifestazione, dell'iniziativa o dell'evento, nell'ipotesi lettera e) sopra menzionata; 

c) dalla data prevista per la partenza, nell'ipotesi di titolo di viaggio, acquistati in Italia, avente come destinazione Stati esteri, dove sia impedito o vietato lo sbarco. 

Il vettore o la struttura ricettiva devono provvedere, entro trenta giorni dalla predetta comunicazione, al rimborso del corrispettivo versato per il titolo di viaggio e per il soggiorno ovvero all'emissione di un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno dall'emissione.

Diritto di recesso da parte del vettore.

L’art. 88-bis della Legge di conversione disciplina anche l’ipotesi contraria, in cui sia il vettore a recedere dal contratto a causa della situazione emergenziale. 

In questo caso sarà onere del vettore darne tempestiva comunicazione all’acquirente e provvedere nel termine di 30 giorni al rimborso anche per mezzo di voucher.

Diritto di recesso degli organizzatori di viaggio e modalità di richiesta di rimborso per gli acquirenti.

Gli organizzatori dei viaggi possono esercitare il diritto di recesso dai contratti di pacchetto turistico aventi come destinazione Stati esteri ove sia impedito o vietato lo sbarco, l'approdo o l'arrivo in ragione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 e comunque quando l'esecuzione del contratto è impedita, in tutto o in parte, da provvedimenti adottati a causa di tale emergenza dalle autorità nazionali, internazionali o di Stati esteri.

A fronte dell’esercizio del recesso, l'organizzatore può offrire al viaggiatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore, può procedere al rimborso oppure può emettere un voucher, da utilizzare entro un anno dalla sua emissione, di importo pari al rimborso spettante. 

Per quanto riguarda la tempistica per il rimborso, è stabilito che il voucher sia emesso appena ricevuti i rimborsi o i voucher dai singoli fornitori di servizi e comunque non oltre sessanta giorni dalla data prevista di inizio del viaggio. 

Le stesse regole valgono nel caso sia l’acquirente a recedere dal contratto. 

La normativa introdotta prevede che l’emissione dei voucher assolva i correlativi obblighi di rimborso e non richieda alcuna forma di accettazione da parte del destinatario. 

Pertanto, la scelta di operare il rimborso ovvero di emettere il voucher sarà rimessa esclusivamente al vettore o all’organizzatore del viaggio.

 

Per ogni ulteriore chiarimento, Studio Gallasso & Associati è a Vostra disposizione per consulenze relative ad ogni caso specifico.

11 maggio 2020


Sospensione procedure esecutive immobiliari

 

Stop ai pignoramenti sulla Prima Casa

Con l’introduzione dell’art. 54-ter ad opera della legge di conversione del decreto CuraItalia è stata disposta la sospensione – su tutto il territorio nazionale e per una durata di sei mesi – delle procedure esecutive immobiliari che abbiano quale oggetto il pignoramento dell’abitazione principale del debitore.

La sospensione, riferendosi il testo della legge ad «ogni procedura esecutiva», riguarderà sia i procedimenti in corso che quelli che potrebbero essere avviati fino al prossimo 30 ottobre.

La ratio di tale provvedimento eccezionale è chiaramente quella di non penalizzare ulteriormente chi già si trova in difficoltà economica a causa della sospensione o della riduzione della propria attività per l’emergenza epidemiologica in corso.

https://www.sgalex.it/index.php/it/news

9 maggio 2020


Emergenza COVID-19 e assemblee condominiali.

 

I provvedimenti adottati per contrastare l’emergenza Covid-19 hanno ripercussioni anche in merito alla tematica dell’amministrazione di condominio.

Pur non essendo state introdotte delle norme specifiche, infatti, le misure adottate al fine di evitare il propagarsi del contagio non possono che ripercuotersi anche sulle normali attività di amministrazione e, in particolare, sulle assemblee condominiali.

Il DPCM del 4 marzo 2020, all’art 1, lett. a), impone che siano «sospese le manifestazioni e gli eventi di qualsiasi natura, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportano affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro di cui all’allegato 1, lett. d)».

Anche nella Fase 2 permane il divieto di assembramenti e riunioni da ritenersi applicabile anche alle assemblee di condominio che, dunque, non possono essere svolte ed anche le riunioni già eventualmente convocate andranno sospese e differite a data da destinarsi.

Tale interpretazione è stata fornita anche dal Governo che ha stabilito che «le assemblee condominiali sono vietate, a meno che non si svolgano con modalità a distanza, assicurando comunque il rispetto della normativa in materia di convocazioni e delibere».

L’unica alternativa per lo svolgimento delle assemblee, siano esse ordinarie o straordinarie risulta quella di adottare la modalità a distanza. Tale possibilità presenta, tuttavia, degli aspetti critici riguardo alla modalità di convocazione e alla garanzia che tutti abbiano gli strumenti tecnici che permettano effettivamente la partecipazione.

Il legislatore del 1942 non ha previsto la possibilità di un’assemblea in videoconferenza, né la riforma del condominio sembra aver preso in considerazione tale eventualità, essendosi limitata a stabilire che l’avviso di convocazione debba contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno e debba essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, anche mezzo di posta elettronica certificata.

Inoltre, l’articolo 66 disp. att. c.c. stabilisce che l’avviso di convocazione dell’adunanza debba contenere anche l’indicazione del luogo, che sembra pertanto essere unico; appare, quindi, difficile che i partecipanti all’assemblea possano trovarsi in più luoghi differenti. Tale articolo non è derogabile neppure dal regolamento di condominio, ex art. 72 disp. att. c.c.. Se ne deve concludere che la possibilità di svolgimento in concreto di assemblee condominiali in videoconferenza appaia quanto mai limitata.

Presumibilmente, sarebbe ipotizzabile un’assemblea in videoconferenza nel caso in cui tutti i condomini, nessuno escluso, fossero dotati di indirizzo PEC, nonché di idonei supporti tecnici per effettuare i collegamenti in modalità telematica. videoconferenza. Ipotesi certamente non comune neo condomini italiani. In tutti gli altri casi, in cui non vi siano dette condizioni, lo svolgimento di assemblee “a distanza” non appare praticabile, risultando di fatto impossibile rispettare quanto le norme impongono ai fini della validità della convocazione.

Di fronte alla concreta impossibilità di svolgimento delle assemblee, appare opportuno analizzare quali siano i poteri che l’amministratore può esercitare in questa particolare situazione.

Secondo quanto stabilito dagli artt. 1134 e 1135 c.c. all’amministratore è senza dubbio data la possibilità di adottare provvedimenti urgenti, riguardanti in particolare lavori di manutenzione straordinari, salvo dover riferire in merito nella prima assemblea.

Una delle tematiche che si ritiene più problematica concerne la redazione dei rendiconti.

Bilancio consuntivo e preventivo debbono essere approvati dall’assemblea, come stabilito dall’art. 1135 c.c.. Vi sono spese, tuttavia, che devono necessariamente essere sostenute dal Condominio, quali per esempio il pagamento delle utenze, dell’assicurazione, lo stipendio del portiere.

Per tali ragioni, si ritiene che l’amministratore possa provvedere alla redazione dei rendiconti e all’invio degli stessi ai condomini, riservandosi di convocare l’assemblea appena sarà legalmente possibile; in base ai rendiconti predisposti ed inviati potrà richiedere un acconto per fare fronte alle spese necessarie e urgenti.

Tale operato dovrà essere riferito e ratificato nella successiva assemblea, contestualmente all’approvazione dei rendiconti.

8 maggio 2020


Misure emergenziali in materia di assemblee societarie

Il Decreto «Cura Italia» è intervenuto, per mezzo delle disposizioni di cui all’art. 106, in materia di svolgimento delle assemblee societarie, introducendo importanti deroghe alla disciplina ordinaria delle società di capitali, confermate anche in sede di conversione.

Gli interventi in parola si sono resi necessari stante il fatto che proprio nei mesi di marzo e aprile sono solite svolgersi gran parte delle adunanze dei soci, chiamati all’approvazione del bilancio; assemblee che ordinariamente dovrebbero essere convocate entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio.

Le disposizioni del D.L. hanno quindi lo scopo, vigenti le note misure restrittive della libertà di circolazione e di assembramento, di facilitare l’assunzione delle deliberazioni e ancor prima la partecipazione alle assemblee.

Di seguito, una sintesi delle misure di maggior interesse, relative a società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative e mutue assicuratrici.

È prorogato di diritto a 180 giorni il termine per la convocazione dell’assemblea annuale di approvazione del bilancio d’esercizio, in deroga alle disposizioni codicistiche e alle eventuali previsioni statutarie di segno contrario.

L’avviso di convocazione assembleare – parimenti ordinaria o straordinaria – può prevedere che in sede di adunanza il voto venga espresso «in via elettronica», ad esempio a mezzo e-mail, o «per corrispondenza». Può altresì essere disposto l’intervento stesso in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione. Modalità tutte adottabili, nella vigenza del D.L., anche nel silenzio dello statuto ovvero nonostante esplicite e contrastanti previsioni statutarie.

La modalità di adunanza tradizionale (ossia di persona nel luogo di convocazione) può addirittura essere completamente esclusa, prevedendo che l’assemblea si svolga interamente mediante mezzi di telecomunicazione, purché tali mezzi siano in grado di garantire «l’identificazione dei partecipanti, la loro partecipazione e l’esercizio del diritto di voto». Il testo precisa – così sostanzialmente recependo la soluzione già prospettata dalla recente massima n. 187 dell’11.03.2020 del Consiglio Notarile di Milano – che non è necessaria la compresenza fisica nel medesimo luogo nemmeno del presidente, del segretario o del notaio. Anche tali soggetti potranno prendere parte all’assemblea a distanza, in deroga pertanto al disposto dell’art. 2375, c. 1, codice civile, che vorrebbe la compresenza di tali soggetti, per la sottoscrizione del verbale assembleare.

In ambito di società a responsabilità limitata, inoltre, è consentita l’espressione del voto mediante consultazione scritta o per consenso espresso per iscritto, anche in deroga a quanto previsto dall’art. 2479, c. 4, codice civile, e quindi:

- pur nel silenzio dell’atto costitutivo;

- anche in ipotesi di votazioni circa (i) modificazioni dell’atto costitutivo, (ii) decisioni di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci, e in ipotesi di assemblea convocata a seguito di perdite superiori a un terzo del capitale e non ridotte nell’esercizio successivo, dovendo quindi procedere alla riduzione del capitale sociale in proporzione;

- né gli amministratori, né i soci che rappresentano un terzo del capitale sociale potranno opporsi a tali modalità di espressione del voto, richiedendo una deliberazione assembleare ordinaria.

Il Decreto stabilisce poi ulteriori regole specifiche per le società con azioni quotate, per quelle ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione e per quelle con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante, nonché ulteriori disposizioni rivolte alle banche popolari, alle banche di credito cooperativo, alle società cooperative e alle mutue assicuratrici.

Tutte le previsioni di cui all’articolo 106 D.L. 18/2020, si applicano, ai sensi del comma 7, alle assemblee convocate entro il 31 luglio 2020, ovvero entro la data, se successiva, fino alla quale sarà in vigore lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al notorio rischio sanitario.

Per tutto quanto non previsto dal D.L. dovrà naturalmente continuare ad applicarsi la disciplina ordinaria, codicistica o statutaria. Poiché, ad esempio, nessuna deroga è stata introdotta relativamente all’invio dell’avviso di convocazione assembleare, in materia dovranno essere rispettati i medesimi modi e termini già in essere.

Un vuoto normativo, di non poco conto, riguarda invece le riunioni degli altri organi sociali, quali il Consiglio di Amministrazione, il consiglio di sorveglianza o il collegio sindacale, di cui il né Decreto, né la Legge di conversione, si sono occupati. Se da un lato alcune associazioni (quali Assonime e la Fondazione Nazionale dei Commercialisti) si sono espresse per una applicazione analogica anche a tali organi delle disposizioni sopra analizzate, è invero dubbia la possibilità di una lettura estensiva di tali previsioni, trattandosi con tutta evidenza di norme straordinarie. Quantomai opportuna sarebbe, per tale ambito, l’emanazione di una norma ad hoc.

8 maggio 2020


 

Sospensione dei termini: quale sorte per i pignoramenti già in corso?

 

Coloro i quali si vedano detrarre somme dallo stipendio o dalla pensione, a causa di un pignoramento già in corso di esecuzione, non possono confidare in alcuna sospensione.

Per i debiti maturati prima dell'emergenza sanitaria ed azionati con procedure già concluse, come nel caso dell'ordinanza di assegnazione nelle procedure presso terzi, i provvedimenti governativi non prevedono alcuna sospensione.

Con la conseguenza che, se al posto dell'ordinario stipendio vengono percepiti importi per Cassa integrazione o FIS (fondo di integrazione salariale), le trattenute andranno a colpire  dette poste.

Con un'unica eccezione: il caso in cui la trattenuta derivi da un pignoramento azionato dall'amministrazione finanziaria.

L'art. 68 del DL 18/2020 prevede infatti la sospensione dei termini dei versamenti derivanti da cartelle di pagamento e avvisi di debito, scadenti nel periodo 8 marzo-31 maggio 2020.

Fino al 31 maggio, quindi, l'agenzia delle Entrate-Riscossione non potrà attivare né procedure cautelari (fermi amministrativi, ipoteche), né procedure esecutive (pignoramenti).

Pur in assenza di specifica disposizione, per evitare disparità di trattamento con i contribuenti in bonis pare legittimo ritenere che ciò valga anche per le procedure esecutive già in corso.

7 maggio 2020


Sospensione Feriale vs Periodo Cuscinetto: quali sono le sorti dell’Atto di Precetto?

 

La normativa introdotta per far fronte alla situazione emergenziale Covid19 ha istituito un periodo di sospensione straordinaria dell’attività giudiziaria. In virtù di quanto stabilito dall’art. 83 del D.L. n. 18/2020 e dal successivo art. 36 del D.L. n. 23/2020 sono dunque sospesi, fino all’11 maggio 2020, tutti i termini processuali.

Quid iuris con riferimento agli atti non propriamente di natura processuale, come in particolare l’atto di precetto?

Come noto, durante la sospensione feriale il termine di validità del precetto non viene sospeso ed è quindi sorto il dubbio che tale interpretazione debba essere applicata anche nel regime del c.d. «periodo cuscinetto», istituito nell’ambito dell’emergenza in corso.

Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la Relazione n. 28 del 1° aprile 2020, ha chiarito che il regime di sospensione deve estendersi anche al termine di efficacia del precetto ex art. 481 c.p.c.

7 maggio 2020


Decreto Liquidità e interventi in materia di procedure concorsuali.

Il cd. Decreto Liquidità n. 23/2020 interviene, in materia di procedure concorsuali, su tre diversi fronti.

  1. Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza.

L’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza è stata rinviata al 1° settembre 2021 (dal temine originario del 14 agosto 2020).

Subisce quindi un nuovo arresto il già lungo e frammentato percorso di ammodernamento della materia concorsuale.

Come noto, le misure previste nel nuovo codice dovrebbero garantire il passaggio da una fase di gestione per lo più liquidatoria delle situazioni di crisi e insolvenza ad una fase di prevenzione. Gli strumenti di allerta, una delle maggiori novità introdotte, sono finalizzati alla tempestiva emersione degli indizi di crisi, consentendo l’adozione delle più idonee misure atte alla composizione della stessa.

In una situazione critica come quella attuale, è evidente, le misure di allerta non riuscirebbero a svolgere il proprio ruolo selettivo e parimenti sarebbero di ardua individuazione nuove risorse per poter concretamente attuare una ristrutturazione delle imprese. Il rinvio pare inoltre opportuno al fine di scongiurare i rischi derivanti dalle eventuali incertezze interpretative delle nuove disposizioni.

  1. Dichiarazione di fallimento.

Ai sensi dell’art. 10 sono improcedibili tutti i ricorsi per la dichiarazione di fallimento e di insolvenza ai fini della liquidazione coatta amministrativa e dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese depositati nel periodo tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020.

Nello stesso periodo sono sospesi i termini per le azioni revocatorie e per la dichiarazione di fallimento delle imprese cancellate dal registro delle imprese.

La disposizione intende chiaramente tutelare l’imprenditore, potendo lo stato di insolvenza dipendere esclusivamente dalla attuale e straordinaria situazione economica, così come i creditori, che si vedrebbero penalizzati da un’attività liquidatoria portata avanti in condizioni di mercato alterate.

  1. Concordati preventivi e accordi di ristrutturazione dei debiti.

La relazione illustrativa al D.L. afferma che l’attuale grave situazione economica «genera concreti rischi anche in relazione alla sopravvivenza dei tentativi di soluzione della crisi di impresa alternativa al fallimento promossi in epoca anteriore al palesarsi dell'emergenza epidemiologica». Le procedure in parola rischierebbero quindi di «risultare irrimediabilmente compromesse, con ricadute evidenti sulla conservazione di complessi imprenditoriali anche di rilevanti dimensioni».

Per far fronte a tali rischi, il D.L. sancisce:

  • con riferimento alle procedure già omologate, la proroga di sei mesi dei termini di adempimento aventi scadenza nel periodo tra il 23.02.2020 e il 30.06.2020. Ciò al fine di non considerare quali inadempimenti (rilevanti per una eventuale risoluzione del concordato) gli eventuali ritardi maturati nel periodo emergenziale;
  • con riferimento alle procedure pendenti, il debitore può chiedere al tribunale un termine non superiore a 90 giorni per elaborare una nuova proposta di concordato o di accordo di ristrutturazione, ovvero modificare unilateralmente i termini di adempimento originariamente previsti, con un differimento non superiore a sei mesi;
  • con riferimento alle procedure in fieri, il debitore può chiedere un differimento, di massimo 90 giorni, del termine per presentare la proposta e il piano di concordato (ex art. 161, c. 6, l. fall.) ovvero l’accordo da omologare (ex art. 182-bis, c. 7, l. fall.).

6 maggio 2020


Pandemia e locazioni: causa di impossibilita’ sopravvenuta? Sì, ma non per tutti.

 

I provvedimenti restrittivi introdotti dall’inizio dell’emergenza COVID-19 hanno comportato la chiusura di molti negozi e attività commerciali in genere.

Anche nella cosiddetta Fase 2, al via da ieri 4 maggio, molte attività (solo a titolo esemplificativo bar, ristoranti, parrucchieri e commercio al dettaglio) continuano a subire forti limitazioni alla possibilità di operare.

Un profilo moto critico in questa situazione è quello relativo alle spese fisse che le imprese devono continuare a sostenere, nonostante la mancanza di introiti. Fra dette spese rientra in molti casi anche il pagamento del canone di locazione dei locali che rimangono chiusi.

Gli articoli 1256, 1258 e 1464 c.c., in tema di impossibilità sopravvenuta temporanea e/o parziale dell’obbligazione, forniscono una disciplina che può applicarsi questo problema.

Nei contratti di locazione ad uso commerciale l’obbligazione del locatore, proprietario, consta nella messa a disposizione del bene immobile al fine dello svolgimento di una specifica attività.

La situazione emergenziale in corso rende impossibile per il conduttore l’utilizzo del bene locato per le finalità pattuite. Vi è dunque un’impossibilità parziale e/o temporanea, naturalmente incolpevole, di eseguire il contratto e le prestazioni ivi previste.

Questo comporta, in certe condizioni, la possibilità per il conduttore, ai sensi dell’art. 1464 c.c. di veder ridotto o sospeso il canone di locazione, in misura corrispondente al mancato utilizzo.

Ciò significa che il locatore incolpevole debba accettare la riduzione o addirittura la sospensione del canone senza alcuna possibilità di replica?

Così non è. Un aspetto da considerare, infatti, è che gli immobili commerciali sono sempre rimasti nella disponibilità dei conduttori, che non hanno li hanno restituiti nella disponibilità dei proprietari. Pur non potendo svolgere l’attività principale, molti conduttori hanno potuto fare un utilizzo diverso degli spazi in questo periodo (come effettuando i lavori per rendere idonei gli spazi alla riapertura), continuando dunque a godere del bene locato.

In ogni caso, la mancata restituzione del bene locato al locatore non reimmette quest’ultimo nella disponibilità del bene, che dunque resta nella disponibilità del conduttore (il quale vi avrà anche presumibilmente lasciato beni e attrezzature propri), pur nell’impossibilità di utilizzarlo per lo svolgimento regolare della propria attività.

Se ne deve concludere che ogni caso specifico necessiti di essere analizzato singolarmente, per comprendere lo strumento giuridico più idoneo a tutelare gli interessi in gioco.

 

Quanto finora argomentato non riguarda le locazioni ad uso abitativo.

Molti conduttori, spesso a causa della riduzione degli stipendi per l’adozione della cassa integrazione o altre situazioni, si sono trovati in difficoltà con il pagamento del canone e si sono chiesti se ciò comportasse una causa di impossibilità sopravvenuta.

La risposta a tale quesito non può che essere negativa. Diversamente dal caso delle locazioni commerciali, la normativa introdotta e la situazione di fatto esistente non producono conseguenze dirette sul contratto: il locatore continua ad adempiere regolarmente alla propria obbligazione di mettere a disposizione in bene immobile. Il conduttore dunque deve provvedere alla corresponsione del canone, non rilevando in questo caso le difficoltà economiche che sono conseguenza secondaria della pandemia.

Se così non fosse, ogni qualvolta, anche in periodi storici diversi, il conduttore perda il lavoro o si trovi in difficoltà economica potrebbe richiamare l’art. 1256 c.c. e ciò non solo per i contratti di locazione, ma per qualsivoglia contratto e ciò non è concepibile.

 

Ciò non esclude la possibilità di giungere ad un accordo tra le parti che comporti una temporanea riduzione del canone. Tale accordo, se correttamente registrato, comporta un vantaggio fiscale per il locatore, che non dovrà versare le imposte sui canoni non riscossi.

Sia i locatori che i conduttori possono trarne un significativo beneficio: quello del conduttore è evidente, in quanto conseguirà una diretta diminuzione della propria spesa mensile, ma ci sono vantaggi anche per il locatore.

Trovare un accordo con l’inquilino in difficoltà economiche dovute al coronavirus, potrebbe infatti evitare il verificarsi di problemi maggiori, come controversie giudiziarie e il pagamento di imposte per canoni mai riscossi, nell’eventualità che questi sospenda in via illegittima il pagamento in autonomia.

Con la registrazione dell’accordo di riduzione dei canoni di locazione, che è esente da ogni imposta ai sensi dell’art. 19 del DL n. 133/2014, e la relativa comunicazione all’Agenzia delle Entrate, verrà anche calcolato il nuovo ammontare delle imposte, evidentemente ridotto, evitando in rischio di dover corrispondere imposte su canoni non incassati.

5 maggio 2020


Fase 2: la spesa alimentare.

 

L’ordinanza 539 del 3 maggio disciplina, per la Regione Lombardia, le modalità operative per lo svolgimento dei mercati alimentari all’aperto.

Covid Manager, ingressi contingentati, distanziamento interpersonale e tra le postazioni di vendita e rilevamento della temperatura a clienti e operatori sono tra le misure necessarie per la riapertura.

Le amministrazioni comunali, ad integrazione delle disposizioni regionali, informano circa l’adozione concreta delle misure di prevenzione igienico-sanitaria e di sicurezza.

Di seguito il link all’ordinanza sindacale del comune di Merate: Ordinanza Comune Merate

 

Ad oggi non sono stati invece sciolti i dubbi relativi alla possibilità di uscire dal proprio comune per fare la spesa. Se tale incombente è sempre stato uno dei motivi legittimi di spostamento, non è chiaro se ci si debba ancora rivolgere al negozio più vicino a casa.

Poiché tuttavia l’ambito comunale non è più espressamente previsto per limitare gli spostamenti individuali, tant’è che nel testo del DPCM 26 aprile non si rinvengono differenziazioni tra spostamenti all’interno del proprio comune ovvero tra comuni diversi, si ritiene non sussistano restrizioni allo spostamento all’interno del territorio regionale per l’acquisto di beni di prima necessità.

Tale interpretazione è condivisa dalla Prefettura di Milano. I sindaci hanno comunque il potere di dettare disposizioni più restrittive.

L’invito generale, ad ogni modo, non può che essere quello di utilizzare il buon senso.

4 maggio 2020


Fase 2 - Frequently asked questions: il Governo risponde.

 

Pubblicate sul sito del Governo italiano le F.A.Q. a chiarimento di alcuni dubbi originati dal contenuto del DPCM 26 aprile 2020, che disciplina l’allentamento delle misure di lockdown per la c.d. Fase 2 dell’emergenza COVID-19.

Pur se non tutti i dubbi sollevati negli ultimi giorni sono stati chiariti, vi si trovano utili informazioni in merito alle visite ai congiunti, all’attività motoria e sportiva, alle modalità e finalità di spostamento all’interno della Regione, ad alcune specifiche attività economiche, ecc..

Le F.A.Q. sono disponibili a questo LINK.

2 maggio 2020


Il reato di pandemia: quando ricorre?

 

Da diversi giorni è notizia di cronaca che le Procure dei Tribunali, soprattutto del nord, hanno avviato inchieste sui decessi registrati all’interno delle case di riposo.

Viene contestata la fattispecie di cui all’art. 452 c.p. che sotto la rubrica “delitti colposi contro la salute pubblica” punisce chiunque commette per colpa il reato di cui all’art. 438 c.p., ossia il reato di epidemia mediante la diffusione di germi patogeni.

Secondo l’interpretazione già fornita in passato (in materia di trasmissione del virus HIV attraverso le emotrasfusioni) dalla suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 576 dell’11 gennaio 2008) sussiste la fattispecie nel caso in cui vi sia “la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti”.

Sembra quindi innanzitutto escludersi l’inquadrabilità nella fattispecie dei casi in cui il fenomeno rimanga quantitativamente circoscritto.

La Cassazione poi ha precisato che la responsabilità per il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di omissione (Cass. Pen. Sez. IV 12/12/2018 n. 9133) e quindi non sarebbe ravvisabile a carico dei sanitari, operatori o vertici delle strutture indagate per le determinazioni assunte laddove non abbiano adottato la dovuta diligenza (ma non abbiano posto in essere una condotta commissiva di diffusione dei germi).

Certamente potrebbero essere invocate altre norme incriminatrici, quali il reato di lesioni colpose (art. 590 c.p.) o di omicidio colposo (art. 589 c.p.), con l’onere però delle Procure di dimostrare il nesso di causalità, che potrebbe essere escluso nel caso di soggetti già affetti da patologie o laddove non sia possibile stabilire se e quando hanno contratto il Coronavirus.

Il lavoro delle Procure appare quindi arduo, con il rischio di lasciare insoddisfatti (anche solo moralmente) soprattutto i parenti delle vittime.

2 maggio 2020


 

Sicurezza sul lavoro e COVID-19: le direttive INAIL.

Il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro è in questo periodo di assoluta attualità. Con la ripartenza di gran parte delle attività lavorative prevista per il prossimo 4 maggio, è opportuno che aziende ed uffici si attrezzino per garantire la sicurezza dei lavoratori.

A tal fine l’Inail ha diramato il 23 aprile u.s. una guida tecnica, redatta sulla base del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, di cui di seguito si analizzano in breve i contenuti.

Sulla base di tre criteri (esposizione, prossimità e aggregazione) sono state individuate quattro categorie di rischio (dal livello basso a quello alto) in cui sono state inquadrate le diverse attività lavorative.

Per verificare a quale classe di rischio appartenga ciascuna attività, è possibile consultare gli allegati 1 e 2 della guida INAIL. Tali classificazioni debbono ritenersi in ogni caso orientative.

Le misure di sicurezza che devono essere introdotte possono essere così classificate:

- Misure organizzative;

- Misure di prevenzione e protezione;

- Misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici.

Le prime riguardano la gestione degli spazi e degli orari di lavoro che dovranno essere riorganizzati al fine di favorire il più possibile il distanziamento delle postazioni di lavoro, prediligendo lo smart working, la turnazione dei lavoratori per ridurre al minimo le compresenze, nonché prevedendo percorsi per l’ingresso e l’uscita dal luogo di lavoro che consentano di mantenere le distanze di sicurezza. I datori di lavoro dovranno avere particolare riguardo per eventuali soggetti a rischio, che potranno essere adibiti anche a mansioni diverse, se non idonei (secondo il parere del medico curante) a riprendere la consueta attività.

Rivestono, inoltre, particolare importanza le misure di prevenzione e protezione, al cui riguardo è essenziale fornire ai lavoratori la dovuta formazione. Si tratta in particolare:

- dell’adozione di misure di igiene personale, attraverso la predisposizione nel luogo di lavoro di brochure indicanti le regole da seguire e la fornitura dei prodotti detergenti per le mani e della sanificazione degli ambienti, oltre alla pulizia giornaliera di tutte le postazioni di lavoro;

- dell’adozione dei dispositivi di protezione individuale (DPI), quali mascherine e guanti, in tutti gli ambienti comuni;

- della sorveglianza sanitaria e tutela dei lavoratori fragili, attraverso la nomina di un medico competente ad hoc per il periodo emergenziale o soluzioni alternative, anche con il coinvolgimento delle strutture territoriali pubbliche (ad esempio, servizi di prevenzione territoriali, INAIL, ecc.) che, come per altre attività, possano effettuare le visite, magari anche a richiesta del lavoratore.

Infine, la guida tecnica pone l’attenzione alle misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici, per cui risulta fondamentale l’adozione della procedura del controllo della temperatura corporea sui lavoratori, prima dell’accesso al luogo di lavoro, secondo le modalità di cui al “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, già richiamate nella nostra precedente nota del 29.04.2020 che trovate sotto in questa stessa pagina.

Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5° C, non potrà essere consentito l’accesso ai luoghi di lavoro. Il lavoratore inoltre andrà isolato e dovrà contattare nel più breve tempo possibile il proprio medico curante, ovvero i numeri dedicati all’emergenza e seguire le indicazioni. Le stesse procedure dovranno essere attuate qualora un lavoratore presenti sintomi durante l’orario di lavoro.

30 aprile 2020

 


Sanificazione degli ambienti di lavoro - Incentivi

 

Con la riapertura delle attività lavorative in uffici e aziende prevista per il prossimo 4 maggio è opportuno provvedere alla sanificazione degli ambienti di lavoro secondo le disposizioni della circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute.

A tal proposito l’art. 64 del D.L. 18/2020 (Cura Italia) ha introdotto importanti incentivi.

E’, infatti, riconosciuto, per il periodo d'imposta 2020, un credito d'imposta, nella misura del 50% delle spese di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro sostenute e documentate fino ad un massimo di € 20.000 per ciascun beneficiario, nel limite complessivo di 50 milioni di euro per l'anno 2020.

La misura è stata confermata con la legge di conversione 27/2020.

Studio Gallasso & Associati è a Tua disposizione per approfondimenti sul tema e per conoscere le modalità operative e che meglio si adattano ad ogni caso specifico.

30 aprile 2020


Protocolli di prevenzione e tutela della privacy.

 

In vista dell’avvio della Fase 2, che prevede la graduale ripresa delle attività professionali e produttive, il DPCM 26 aprile 2020 impone espressamente il rispetto del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, come integrato il 24 aprile (disponibile qui).

Anche in questa nuova fase, i servizi online e lo smart working dovranno essere favoriti.

Tuttavia, dove vi sia la necessità di svolgere attività lavorativa in presenza, la sicurezza dei lavoratori potrà essere garantita adottando diverse misure, anche sulla base del rischio specifico che ciascuna attività comporta. In proposito, il Documento Tecnico dell’INAIL presenta un metodo di valutazione integrata del rischio, per settore produttivo, di grande utilità.

Le misure da implementare per il rientro sono molteplici, da quelle prettamente informative, a quelle più propriamente organizzative. Dovranno essere adottate tutte le soluzioni più idonee a garantire il distanziamento sociale anche all’interno dei locali aziendali, quali turnazione dei dipendenti e rimodulazione dei livelli produttivi, riorganizzazione degli spazi lavorativi e delle vie di transito. Si dovranno prevedere diverse modalità di gestione degli spazi comuni e di accesso ai medesimi; si renderà necessario l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e la sanificazione dei locali aziendali.

Anche le modalità di ingresso in azienda dovranno essere rivoluzionate: condizione standard per l’accesso del personale sarà una temperatura corporea inferiore a 37,5°.

Proprio tale misura, se da un lato assolutamente necessaria per il contrasto alla diffusione del contagio, porta con sé un’evidente e profonda invasione della sfera personale dei soggetti coinvolti. La rilevazione della temperatura in tempo reale costituisce trattamento di dati personali: l’azienda dovrà garantire anche in questo ambito, quindi, il rispetto della normativa vigente in materia di privacy (GDPR e D.Lgs 196/2003 e ss.mm.).

Analoghe considerazioni valgono per altre prescrizioni stabilite dal Protocollo, come l’obbligo di dichiarare al datore di lavoro la presenza o insorgenza di sintomi o altre situazioni di pericolo legate al possibile contagio da COVID-19.

Lo Studio Gallasso & Associati è a disposizione per fornire l’assistenza necessaria relativamente a questa specifica esigenza, redigendo un’apposita informativa sul trattamento dei dati personali, eventualmente integrativa rispetto a quella già fornita, così come per ogni ulteriore esigenza connaturata alla prossima ripresa lavorativa.

29 aprile 2020


 

DPCM 26 aprile 2020: un primo allentamento del lockdown.

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 27.04.2020 il testo dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio che delinea le regole da seguire nella Fase 2, al via il prossimo 4 maggio. Un primo passo verso quello che sarà un graduale e scaglionato ritorno alla normalità e riavvio delle attività produttive e commerciali.

Di seguito, in sintesi, le novità introdotte dal DPCM 26 aprile rispetto alle misure ancora oggi vigenti:

  • introdotta, tra i legittimi motivi di spostamento dalla propria abitazione, la possibilità di far visita ai congiunti, purché vengano adottate tutte le misure di sicurezza (distanze, mascherine, no ad assembramenti). A tal fine sarà rilasciato un nuovo modello di autocertificazione;
  • è in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio o residenza;
  • le persone con febbre e sintomi da infezione respiratoria devono rimanere presso il domicilio;
  • è possibile accedere a parchi e giardini pubblici, rispettando il divieto di assembramento;
  • è consentito svolgere attività sportiva all’aperto, nel rispetto delle distanze di sicurezza;
  • possono svolgersi le celebrazioni funebri, con partecipazione massima di 15 persone;
  • riprende l’attività di ristorazione d’asporto;
  • rientrano in attività anche le imprese operanti nei settori manifatturiero ed edile, nonché quelle di commercio all’ingrosso. Possono riaprire anche le strutture ricettive;
  • le aziende interessate dalla ripresa lavorativa devono assicurare il rispetto del Protocollo condiviso cd. Salute e Sicurezza (Allegato 6 al DPCM);
  • sin dal 27 aprile le suddette aziende possono svolgere le attività propedeutiche alla riapertura;
  • è obbligatorio, su tutto il territorio nazionale, l’uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie in luoghi chiusi aperti al pubblico, quali ad esempio i mezzi di trasporto.

Sono invece confermate tutte le ulteriori misure restrittive già in vigore, come quelle relative alle attività scolastiche, allo spostamento tra regioni, al rientro in Italia, ecc..

Il DPCM 26 aprile prevede, in ultimo, un sistema di coordinamento e controllo tra Stato e Regioni al fine di monitorare l’impatto dell’allentamento delle restrizioni sull’andamento epidemiologico.

Nel corso della conferenza stampa del 26 aprile il Presidente del Consiglio ha inoltre annunciato le prossime fasi della riapertura: il 18 maggio, auspicabilmente, riapriranno le attività di vendita al dettaglio, mostre e musei. Si dovrà attendere fino al 1° giugno, invece, per la riapertura di bar, ristoranti e attività di “cura della persona” (parrucchieri, centri estetici, ecc.). Le scuole riapriranno probabilmente a settembre.

Se da più parti le misure adottate con il Decreto sono state giudicate sin troppo timide, rimanendo effettivamente molte le restrizioni in vigore e le attività non consentite, il Governo giustifica le scelte con la necessità di mediare tra esigenze di ripartenza economica, da un lato, e necessità di non concedere spazio ad una possibile ripresa di forza dell’epidemia, che inesorabilmente riporterebbe ad un completo lockdown, dall’altro.

Per tutti i dettagli, al seguente link il testo integrale del DPCM, completo di allegati: DPCM 26 aprile 2020.

Per ogni ulteriore necessità, chiarimento o approfondimento, non esitate a contattarci.

28 aprile 2020


STUDIO GALLASSO & ASSOCIATI E LA FASE “2”

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il DPCM del 26 aprile 2020, recante le disposizioni governative volte a disciplinare la cosiddetta “Fase 2” dell’emergenza COVID-19.
Tra le dichiarate finalità vi è quella di consentire la ripresa delle attività economiche, incluse quelle degli studi professionali, pur nel rispetto di specifiche misure di prevenzione del contagio.
Il testo integrale del decreto è consultabile sul sito web del Governo italiano al seguente link: DPCM 26 aprile 2020.

Anche Studio Gallasso & Associati tornerà pienamente operativo a partire da lunedì 4 maggio, adottando tutte le prescrizioni previste dalle regole in vigore, al fine di garantire la sicurezza del personale e della clientela.
Per rendere la propria presenza ed il proprio servizio ancora più efficaci, lo Studio ha deciso di potenziare l’informazione on line, ampliando la sezione news del sito web www.sgalex.it ed arricchendo la propria pagina LinkedIn.
Troverete in questa pagina informazioni utili sulle questioni più attuali.
Lo Studio resta naturalmente disponibile ad assistere i propri clienti in tutte le esigenze di natura legale, comprese quelle legate alla situazione di emergenza e all’adeguamento alle nuove prescrizioni normative.
A tal fine, garantiamo la possibilità di consulenze da remoto, anche con sistemi di videoconferenza, nonché di consultazioni in studio quando effettivamente necessario e nel rispetto delle norme di sicurezza e prevenzione.
Non esitate a contattarci per qualunque approfondimento e necessità.

A presto!

Studio Gallasso & Associati

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